Le elezioni generali britanniche svoltesi ieri non sono di quelle che passano alla storia, come quelle che a suo tempo videro l’irresistibile ascesa di Margaret Thatcher o di Tony Blair: l’esito delle urne vede anzitutto una vittoria dei Conservatori, che tuttavia non raggiungono la maggioranza assoluta, e per governare avranno ancora bisogno dei voti dei Liberal Democratici di Clegg che tuttavia hanno subito una pesantissima emorragia di consensi, un vero e proprio travaso di voti che è andato a vantaggio degli stessi Conservatori. La maggioranza che ha governato negli scorsi anni c’è ancora, e Cameron può proseguire il suo lavoro. Stabilità e continuità, dunque, ma solo in apparenza.
Dal voto di ieri emerge un quadro politico in fermentazione, e che nei prossimi anni potrebbe vedere sviluppi molto interessanti. Si è detto dei Lib Dem, un partito da sempre moderatamente progressista, i cui elettori evidentemente si sono radicalizzati, rivolgendosi verso Cameron i più moderati e verso i Laburisti i più socialmente sensibili. I Conservatori hanno sostanzialmente incassato il consenso di chi ha voluto premiare la buona politica economica del Governo: Cameron è riuscito nel corso della trascorsa legislatura ha creare circa due milioni e mezzo di posti di lavoro; precari, a tempo determinato, ma reali, e il tasso di disoccupazione giovanile di Londra è il più basso d’Europa.
E a proposito di Europa: Cameron è riuscito a contenere con successo il fenomeno-Farage. L’erosione di voti conservatori da parte dei populisti dell’Ukip che molti esperti avevano previsto non c’è stata. Cameron si è barcamenato tra promesse di eventuali referendum per uscire dall’Unione Europea e sorridenti rassicurazioni a Strasburgo. Alla fine il gioco ha funzionato e Farage con il suo armamentario demagogico sembra già in declino, pur conservando un certo appeal sull’elettorato degli anziani, degli xenofobi, dei nostalgici dell’Impero Britannico, ma che il sistema elettorale maggioritario — sempiterno e inamovibile in Britannia — penalizza inesorabilmente.
Per quanto riguarda il Labour, esce da queste elezioni nettamente sconfitto. Il testa a testa coi Conservatori prefigurato dai sondaggi (dove — un po’ come in Italia — i moderati sono in imbarazzo a dichiararsi tali) non c’è stato. Erede di Tony Blair cercasi. Dopo il grigio Gordon Brown che successe al brillante leader di fine secolo, i progressisti non sono ancora riusciti a trovare una figura che avvicini il carisma e l’innovatività di Tony: si tratta di una crisi di leadership, più che di idee, ma non solo. I Laburisti hanno subito un vero e proprio tracollo in quello che da sempre era uno dei maggiori serbatoi di voti: la Scozia. Qui c’è stato sì un risultato storico, un cappotto clamoroso: lo Snp, il partito indipendentista, ha conquistato 55 seggi su 58, tant’è che si dovrebbe ora sostituire il luogo comune di “voto bulgaro” con “voto scozzese”.
Un voto, quello scozzese, estremamente significativo. Pochi mesi fa si era tenuto, come noto, un referendum per ottenere l’indipendenza che Londra aveva stoppato con le buone e con le cattive, con gli appelli accorati all’unione e all’attaccamento alla Corona e con minacce più o meno esplicite di catastrofi economiche di una Scozia priva della sterlina. Sotto una nuova guida, quella della pasionaria Nicola Sturgeon che ha preso il posto di un Alex Salmond bollito, lo Scottish National Party ha rialzato la testa, e gli scozzesi hanno dato un inequivocabile segnale di non voler essere ancora una volta menati per il naso da Londra, e dalle sue gentili concessioni. I Laburisti si erano spesi moltissimo per fermare il processo autonomistico in una terra che da sempre li aveva sostenuti generosamente, ed ora ne pagano le conseguenze.
Ma anche Cameron non ha di che gioire troppo di questa situazione, sulla quale nemmeno il nazionalismo da tabloid e la nascita della royal baby hanno potuto incidere. Si prospettano anni interessanti, in Britannia.