Mokhtar Belmokhtar è morto. Forse. Ma la circostanza sulla veridicità o meno della cosa è di ben poco interesse se pensiamo che oggi la sua figura si può considerare una delle tante di spicco nel jihadismo nordafricano e che già nel 2013 era stato dato per morto da parte dell’esercito del Ciad. Quel che a mio giudizio rileva in relazione alla morte presunta di Belmokhtar è ciò che questi fu vent’anni fa e ciò che rappresentò per l’Algeria dilaniata da un massacro a cielo aperto di cui oggi in pochissimi vogliono ricordare l’entità.



Rileva senza alcun dubbio il fatto che Belmokhtar fu per anni il leader incontrastato della Gia (Gruppo Islamico Armato) ovvero di quella formazione radicalista che insanguinò, assieme ad ampie frange dell’esercito algerino, una terra che ancora oggi porta i segni indelebili di quel periodo orribile. C’è la sua mano, e quella di tutti gli altri componenti della Jamaa al Islamiya dietro ai massacri dei monaci di Tibhrine, di Bentalha, di Hassi Messaoud, dietro l’assassinio del giornalista Tahar Djaout e di altri il cui nome si perde nelle sabbie del tempo e della memoria.



Perché dunque oggi tanta attenzione sul nome di Belmokhtar, visto che nulla si disse quando emerse la notizia che era dietro alle milizie che uccisero Gheddafi? Oppure quando rivendicò l’attacco a In Amenas? Diciamocelo senza alcuna remora o timore di dietrologia: la sua morte, oggi, che sia vera o falsa conta pari a zero. Perché questo terrorista assassino non ha scontato nemmeno un’ora della pena che avrebbe dovuto scontare in virtù dei massacri di cui la sua mente, e in alcuni casi la sua mano, si resero responsabili.

La morte di un carnefice, di un genocida non è mai una bella notizia a parer mio perché con la vita se ne vanno anche le responsabilità e le trame oscure che portarono a quei massacri e che permettono ancora oggi alla Libia di essere un Paese nel caos e preda del jihadismo dell’Isis, e all’Algeria di vivere in una cappa che non è e non sarà mai libertà, bensì solo paura dell’eterno ritorno. No, la partita con la memoria negata di quel decennio insanguinato non si chiude qui, oggi, con la morte di Belmokhtar, perché molti ancora vivono e prosperano sguazzando nel potere che quel sangue innocente diede loro la possibilità di ottenere; no, la sofferenza d’Algeria non si estingue con la morte di un uomo che invece doveva parlare e pagare per quel che fece e per quel che altri fecero su suo ordine.



Belmokhtar muore con la consapevolezza intima di aver fatto ciò che per la sua mente jihadista era giusto e il suo volto sarà presto dimenticato; fra due o tre giorni nessuno saprà più chi è stato Belmokhtar, quel che ha fatto e per cosa non ha pagato alcuna pena. È proprio questa la inaccettabile conseguenza della morte, l’oblio eterno non solo di una persona ma anche dei crimini indicibili che ha commesso. Oggi gli algerini ricordano e rivivono quella sofferenza, quell’angoscia, respirano di nuovo l’odore acre della polvere da sparo e riascoltano il tintinnio delle lame che corrono veloci fra le strade e sulla gola della gente. Belmokhtar non ha pagato e altri come lui moriranno senza aver pagato per quel genocidio che ha sradicato centinaia di migliaia di vite algerine innocenti.