Comunque si voglia interpretare il risultato delle elezioni parlamentari che si sono svolte domenica in Turchia, è indubbio che il Paese sembra potersi avviare verso una nuova era. Il partito Akp del presidente Erdogan, saldamente alla guida della Turchia da 13 anni, ha ottenuto “solo” il 40,8% delle preferenze (contro il 50% delle politiche del 2011). Come sottolineato pressoché all’unanimità dagli analisti, la vera novità di questa tornata elettorale è il partito curdo Hdp di Selahattin Demirtas, fondato nel 2014, che ha raggiunto il 13% delle preferenze, superando l’alta soglia di sbarramento del 10%.
E’ questo un risultato che si presta a molte considerazioni sul futuro del Paese e, in più ampia prospettiva, sugli equilibri dello scacchiere geopolitico mediorientale in cui la Turchia ha svolto fin dai tempi dell’impero ottomano un ruolo primario di player regionale.
Il voto di domenica potrebbe avere importanti conseguenze sia all’interno dello Stato turco, sia nei complessi equilibri che in questo momento stanno interessando le aree confinanti che, giova ricordalo, sono la Siria, l’Iraq e l’Iran, paesi, oggi come non mai, al centro del risiko internazionale.
In primo luogo, per quanto riguarda gli equilibri interni, il risultato poco brillante del partito di Erdogan è tanto più emblematico se si considera che l’ex primo ministro si era posto l’ambizioso obiettivo di superare il 60% dei consensi in modo da poter indire un referendum per attribuire alla presidenza — quindi a se stesso — il potere esecutivo, trasformando, di fatto, la Turchia in una Repubblica presidenziale. Il popolo turco, che forse anche per questo è accorso in massa ai seggi elettorali (con una percentuale che ha sfiorato il 90% degli aventi diritto) ha dunque in parte abbandonato il suo leader, allontanandolo dall’ambiziosa velleità di divenire una sorta di “nuovo faraone”, nel suo panturanico disegno di neo-ottomanesimo.
E se da un lato è vero che Erdogan potrà comunque raggiungere il suo obiettivo percorrendo la strada secondaria dell’alleanza con i nazionalisti di Devlet Bahceli, che hanno raggiunto la quota del 16% (con 86 seggi), dall’altro è pur vero che non potrà più autoproclamarsi “l’uomo indiscusso della Turchia contemporanea”.
Inutile usare troppi giri di parole: comunque vada, anche se riuscirà “per il rotto della cuffia” a raggiungere, con una coalizione, la maggioranza necessaria per portare a termine il suo disegno, Erdogan questa volta ha perso. Non ha perso solo un uomo che per anni si era fregiato di dare del “suo” Paese l’immagine di un’isola felice nel prisma “sconquassato” delle primavere arabe, ma anche un modello, quel “modello turco” a cui i Paesi della primavera araba avevano spesso fatto riferimento. Un modello che sembrava, o si sforzava di sembrare, la perfetta unione del rispetto delle prassi democratiche con i principi dell’islam. Un modello perfetto, capace di dialogare con i vicini regionali attraverso la realpolitik della profondità strategica e dello “zero problemi con i vicini” del suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, ma capace al contempo di tenere aperta, seppure con qualche difficoltà, la porta europea.
In altre parole, il pragmatismo turco sembrava un capolavoro di strategia: il maggiore attivismo in politica estera, e soprattutto nelle questioni mediorientali, aveva sicuramente accresciuto l’influenza turca nella regione e poi, con le primavere arabe, Erdogan aveva addirittura intravisto la possibilità per la Turchia di ottenere il ruolo di “Paese guida” nello spazio ex ottomano. Un modello perfetto sulla carta che però ha lentamente rivelato le sue falle. Il sogno infranto delle migliaia di giovani di Gezi Park e la caduta dei partiti islamici nelle post primavere arabe di Egitto e Tunisia hanno piano piano rivelato al mondo il vero volto di un Paese ben lontano dall’immagine dell’isola felice ostentata dal presidente e da allora la Turchia del sultano ha sempre più virato verso la deriva di una dittatura islamica: arresti di massa di giornalisti e intellettuali, costanti violazioni delle più elementari regole democratiche, limitazioni arbitrarie alla libertà di stampa, hanno mostrato il volto nuovo di Ankara.
Erdogan sperava forse che tutto ciò non avrebbe avuto conseguenze? E’ possibile. E, d’altra parte, è tipico di ogni leader maximo credere in maniera miope al mito della propria invincibilità (solo nell’area mediterranea ce lo hanno insegnato Gheddafi, Mubarak e Ben Ali)! Fatto sta che Demirtas, quarantaduenne avvocato curdo, grande oratore, promotore di un linguaggio nuovo vicino a quello dei giovani di piazza Taksim, e che ha basato la sua campagna elettorale, tra le altre cose, su una dialettica di totale opposizione al governo in carica (e probabilmente anche per questo è stato votato da un numero così importante di turchi) ha fatto un vero e proprio sgambetto all’ex primo ministro.
Infine per quel concerne, in più ampia prospettiva, i possibili riflessi dei risultati elettorali rispetto ai vicini regionali e con i Paesi core dell’area mediterranea, va menzionato come la politica estera di Ankara sia stata negli ultimi tempi piuttosto ambigua, soprattutto per quel che riguarda i rapporti con il califfato islamico e con le fazioni islamiste in Libia. Nel primo caso la politica estera turca si è mossa con una certa fumosità tra la necessità di rispondere agli appelli della comunità internazionale ad assumere una chiara posizione contro i boia dello stato islamico e lo spettro della possibile formazione di uno Stato curdo tra Turchia, Siria e Iraq. E’ per questo motivo che il presidente turco ha negato ogni supporto ai ribelli curdi anti-Assad. Come dimenticare quando, durante i tragici giorni dell’assedio di Kobane da parte delle milizie dello stato islamico, pur di non portare acqua al mulino del suo nemico siriano, Erdogan ordinò alle Forze armate turche di non entrare in azione a sostegno dei peshmerga curdi, nonostante a pochi chilometri di distanza dai confini turchi si stesse consumando una vera e propria mattanza?
Per quanto attiene, invece, al teatro libico, la Turchia non hai mai fatto segreto, assieme al Qatar, di stare dalla parte del “governo” islamico di Tripoli, mentre la comunità internazionale con l’Egitto e il resto dei Paesi del Golfo sostengono il governo legittimo di Tobruk. E’ innegabile che questa posizione abbia isolato ulteriormente Ankara allontanandola non solo dall’occidente ma anche da alcuni vicini arabi, l’Egitto di Al-Sisi in primis. Ora, è certamente azzardato credere che il risultato elettorale — che peraltro vede sulla carta il partito di Erdogan vincitore con il 40,8% circa delle preferenze — possa modificare la bilancia della politica estera di Ankara, ma è plausibile ipotizzare che un partito curdo nel governo potrebbe in qualche modo mettere almeno in discussione certe posizioni in politica estera.
In sintesi, cosa potrebbe accadere ora in Turchia? La risposta dipende, è evidente, da come si muoveranno i partiti nel dopo elezioni e in particolare dalla possibile formazione di un governo di coalizione o dall’indizione di elezioni anticipate. In ogni caso non c’è dubbio che, nonostante le mire del sultano, la democrazia in Turchia sembra avere un’altra chance. Staremo a vedere se, chi e come sarà in grado di coglierla.