Il presidente egiziano, il generale al-Sisi, è spesso citato come propugnatore di un islam più “aperto”, dopo il suo intervento di inizio anno all’università islamica di al-Azhar. In effetti, al-Sisi è un esempio di musulmano praticante ma non estremista e il suo invito a quello che è considerato il più autorevole istituto religioso del mondo sunnita è molto significativo. Il suo stringente invito non ha per il momento avuto grandi risultati, per le ragioni esposte da Samir Khalil Samir su ilsussidiario.net. Tra queste vi è la repressione del suo governo verso la Fratellanza musulmana, un movimento che ha grande seguito in molti Paesi arabi. Questa è l’altra faccia di al-Sisi e del suo regime: la pesante repressione contro tutti gli oppositori, non solo i Fratelli musulmani, ma anche esponenti di quel mondo laico che ebbe un ruolo significativo in Piazza Tahrir. Anche la magistratura è sotto tiro, come i media, con conseguenti epurazioni e rinvio a giudizio di giornalisti. La situazione dell’Egitto sembra ritornata simile a quella del regime di Mubarak, anzi secondo alcuni addirittura peggiore, e comunque decisamente lontana da quanto auspicavano le masse che si raccoglievano in Piazza Tahrir.
Si riconferma così l’impossibilità per l’Egitto di un regime stabile se non gestito, o controllato, dai militari, nelle cui mani è anche buona parte dell’economia. Una situazione che ricorda la Turchia prima della svolta islamista di Erdogan, pur senza i connotati laicisti imposti a suo tempo dai Giovani Turchi di Kemal Atatürk. I “moderati” della Fratellanza avevano a suo tempo vinto libere elezioni, ma con il loro tentativo di imporre un regime islamico, riformando in tal senso la Costituzione, si sono inimicata buona parte della popolazione, provocando l’intervento dell’esercito e la successiva repressione.
Il caos della confinante Libia, l’avanzata dell’Isis e la minaccia anche interna di al Qaeda danno altri motivi al regime autoritario di al-Sisi. Inoltre, le elezioni per il Parlamento previste per lo scorso marzo sono state sospese dopo la dichiarazione di incostituzionalità delle leggi elettorali vigenti. La stabilità dell’Egitto, posto all’incrocio tra Medio Oriente e Africa, è fondamentale per tutta l’area. Culla di una delle più antiche civiltà del mondo, anche dopo la conquista araba e durante il periodo ottomano, l’Egitto ha sempre mantenuto una sua identità e autonomia. Nel 1952, il colpo di Stato dei militari guidati da Naguib e Nasser misero fine alla monarchia, che si era svincolata dal protettorato inglese nel 1936, e da allora il Paese è stato guidato da generali, con la recente breve interruzione delle elezioni del 2012 vinte dai Fratelli musulmani e l’elezione di Morsi a presidente, deposto poi dai militari nel 2013.
Con più di 80 milioni di abitanti, l’Egitto è il terzo più popoloso Stato dell’Africa, dopo Nigeria ed Etiopia, ed è anche la terza economia del mondo arabo per Pil totale, dopo Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, ma la sua economia è sempre più in sofferenza, con elevati tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, e povertà dilagante. La situazione di instabilità interna e di tutta l’area ha colpito particolarmente il turismo, molto importante per l’economia egiziana. Dopo le varie guerre arabo-israeliane, l’Egitto fu il primo Stato arabo a firmare la pace con Israele nel 1979, in attuazione degli Accordi di Camp David, seguito dalla sola Giordania nel 1994. L’Egitto è così tornato in possesso della penisola del Sinai, persa dopo la guerra del 1967, normalizzando i rapporti con Israele, raffreddatisi peraltro in quest’ultimo periodo.
Questi rapporti si sono raffreddati negli ultimi anni, ma i due Stati hanno interessi tuttora convergenti nel combattere l’estremismo islamista e, in particolare, la Fratellanza musulmana, cui è collegata Hamas, che da Gaza pone molti problemi ad entrambi. Il controllo dell’Egitto sul Sinai è diventato molto labile e attentati terroristici hanno spesso provocato molte vittime tra i militari egiziani. L’Egitto si trova in una sempre più evidente posizione di antagonismo verso la nuova Turchia di Erdogan, dalla cui politica estera, per molti versi ambigua, traspare l’obiettivo di diventare una superpotenza regionale, con toni “neo-ottomani” che non possono che preoccupare Il Cairo. Anche nei confronti dell’altra potenza regionale sunnita, l’Arabia Saudita, le divergenze sono notevoli proprio sul piano denunciato da al-Sisi ad al-Azhar, dato che il tipo di islam che domina nella penisola arabica e che sostiene la dinastia regnante è ben lontano dal suo invito a un islam più “aperto”.
L’Occidente si trova davanti ad una alternativa simile a quella nei confronti di Saddam Hussein a Gheddafi: tollerare un regime repressivo, ma barriera all’estremismo islamico, o portare in questi Paesi, anche con le armi, la propria versione di democrazia? Gli esempi iracheno e libico rendono difficile rispondere a questo dilemma, almeno nei termini in cui è stato finora posto. Nel caso dell’Egitto, la sua storia forse rende possibile una strada diversa, partendo da forti investimenti nella sua economia per evitare che la crescente povertà renda sempre più facile ai movimenti estremisti il reclutamento di nuovi adepti. Questi interventi non potranno che essere cogestiti con i militari e la classe imprenditoriale ad essi collegata, ma potrebbero essere la chiave per ottenere un maggior rispetto del diritto e un allentamento della repressione. Una strada difficile ma percorribile, ma da chi? Il soggetto più interessato sarebbe l’Europa, ma l’Ue ha già dimostrato ampiamente la propria incapacità a gestire le crisi interne, come quella greca, e a mantenere le promesse fatte all’esterno, come per l’Ucraina.