“Chi parla di inviare soldati in Libia sta giocando a fare il piccolo stratega con le vite degli altri. Senza un accordo tra le fazioni libiche, i nostri militari sarebbero considerati come invasori e diventerebbero magneti per proiettili con decine di vittime al giorno”. Lo rimarca il professor Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali (Ce.Si). Domenica sera quattro italiani, dipendenti della società di costruzioni Bonatti, sono stati rapiti in Libia vicino al compound Eni nella zona di Mellitah. Il sequestro non è stato ancora rivendicato. Per il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, è difficile fare ipotesi su chi siano gli autori del rapimento, anche se l’Unità di crisi della Farnesina sta lavorando con urgenza sul caso.

Chi c’è secondo lei dietro a questo rapimento?

Anche per la zona nella quale sono stati catturati i nostri connazionali, è più facile immaginare un sequestro a scopo estorsivo. Tenga conto che in tutta quell’area non esiste una cesura netta tra gruppi jihadisti e criminali, perché il business è supremo in ogni caso. Sventolare anche in questa vicenda la bandiera nera del radicalismo islamico potrebbe anche aiutare a ottenere qualcosa di più in fase negoziale.

Finora l’Eni in Libia era riuscita a operare in relativa tranquillità. Che cosa si è inceppato?

Non si è inceppato nulla, è che la situazione in Libia è oggettivamente cambiata. Quando la macchina di un intero Paese non funziona più bisogna trovare interlocutori nuovi, giocatori nuovi e ci sono anche regole nuove. Tutto questo non è né facile né automatico.

Da questo momento i rischi per Eni aumenteranno?

Per l’Eni è cambiato tutto non da ieri, ma da quando non c’è più Gheddafi. Cioè dal momento in cui da un regime dittatoriale con un unico interlocutore si è passati a un’anarchia con decine e decine di soggetti.

Che cosa accadrebbe se l’Eni non fosse più in grado di garantire i rifornimenti libici all’Italia?

Il nostro Paese ha molteplici risorse alternative. Sarebbe un problema, ma non ho alcun dubbio che esistano piani B e piani C di approvvigionamento.

 

In questo momento la presenza dell’Eni in Libia è in discussione?

Direi di no, finché sarà garantita la possibilità di operare a un minimo livello di efficienza.

 

Nonostante il caos in cui versa la Libia, l’11 luglio scorso è stato firmato un accordo sotto l’egida Onu. Lei che cosa ne pensa?

Il problema è che gli accordi si fanno e si implementano quando ci sono la volontà e la capacità di vederli confermati. In questo momento in Libia c’è ancora una profonda confusione, e quindi diventa assai difficile trovare una chiave di lettura che possa funzionare per tutto il Paese.

 

Quanto è forte la minaccia dell’Isis in Libia?

Ritengo profondamente sbagliato parlare della minaccia dell’Isis in Libia, come in Tunisia o Iraq: la questione va vista come un unico problema globale. E’ un errore considerare il confine di uno Stato come a una realtà di fronte al quale l’Isis si ferma, per poi riapparire in modo diverso in un altro Stato. Nella realtà non è così.

 

Eppure i rischi di un’espansione del Califfato in Libia sono sempre più gravi. Raid aerei occidentali risolverebbe il problema?

Sono mesi che bombardiamo l’Isis in Iraq e in Siria, ma non mi pare che finora abbiamo ottenuto dei risultati eclatanti. Quello che manca è una visione politica, non le capacità militari.

 

E un intervento di terra quali effetti produrrebbe?

Perfetto, ma poi per fare cosa? Per quanto tempo? Con quale scopo? Con quale coalizione? Queste sono le domande che ci dobbiamo porre, perché prima di mettere i soldati sul campo è doveroso avere idea di quale sia il loro mandato. Altrimenti diventano soltanto dei magneti per proiettili.

 

Quale dovrebbe essere il piano per fare sì che una missione di terra in Libia produca effetti positivi?

Se non c’è un accordo tra le varie realtà libiche, è assolutamente impossibile immaginare di mandare dei soldati perché diventerebbero immediatamente bersaglio sia di una fazione sia dell’altra. I soldati occidentali sarebbero visti come invasori da parte di tutti, e quindi attuare un intervento significherebbe accettare di intraprendere una guerra con decine di morti ogni giorno. Ma la vera domanda cui nessuno sa rispondere è quale debba essere lo scopo di una missione militare in Libia. Se lei mi parla di mandare i soldati, a monte ci deve essere una ragione.

 

Perché è così difficile definire gli obiettivi di una missione di terra?

Il punto è per che cosa mandiamo i soldati e quale sia il ruolo di questa missione militare. Dobbiamo controllare tutta la Libia? Allora dovremo essere pronti a trovare 450mila soldati tra Europa e Stati Uniti che disposti a stare lì per dieci anni. Perché di questo parliamo, se parliamo di controllare la Libia. Se invece decidessimo di controllare soltanto un porto allora ne basterebbero 6mila.

 

Quindi l’entità della missione cambia a seconda dei suoi obiettivi?

Esattamente. Se alla base di partenza non c’è una risposta alla domanda su che cosa dobbiamo fare, facciamo una discussione sul nulla. Prima si definisce la missione, e a quel punto si vede che cosa occorre fare. Ma parlare di un invio di soldati senza definire la missione è un controsenso.

 

In molti però si sono stancati di un’Italia che sta a guardare…

Chi parla di inviare i soldati, se non lo fa in modo avveduto, è uno che sta giocando a fare il piccolo stratega con le vite degli altri. Dato che in vita mia ho visto tanta guerra e tanta morte, e so qual è l’impegno dei soldati italiani, vorrei che questi ultimi fossero inviati solo a condizione che ci siano delle chiare regole, un chiaro mandato e una chiara finestra temporale.

 

(Pietro Vernizzi)