Al momento in cui scriviamo non si sa ancora certamente chi c’è dietro il rapimento in Libia di quattro nostri connazionali, anche se le autorità locali sembrano propendere per un’azione a scopo estorsivo. Tuttavia, in queste aree lo spartiacque tra estorsione, politica ed estremismo religioso è piuttosto labile, né si può escludere l’ipotesi, in effetti avanzata, di un coinvolgimento dei trafficanti di migranti. In questo deprecabile caso, invece del riscatto ci potremmo trovare davanti a un ricatto, molto più difficile da gestire. In attesa dei prossimi sviluppi possiamo solo sperare in una concreta e adeguata azione del nostro governo e delle autorità locali (e ciò dipende dal chiarire l’identità dei rapitori) e pregare per i quattro rapiti e le loro famiglie.
Già da febbraio la Farnesina ha invitato gli italiani a rientrare dalla Libia, ma i connazionali rapiti non erano lì per diporto, bensì per lavoro, data la ancora notevole presenza di imprese italiane in quel Paese. Anche se il numero di espatriati dall’Italia è fortemente diminuito, un rientro totale metterebbe a repentaglio l’operatività di molte imprese. Uno dei compiti del governo, e prima ancora delle imprese, sarà stabilire quando il pericolo diverrà così elevato da consigliare di abbandonare ogni attività in Libia. Nel frattempo, non rimane che cercare di rendere il più possibile sicura la vita degli italiani che è necessario che rimangano in Libia.
Andrea Margelletti, nella sua intervista al Sussidiario, considera giustamente molto problematico un intervento armato italiano, ma anche le altre soluzioni non sembrano così a portata, data la congerie di forze contrapposte che caratterizzano attualmente la Libia. Il recente accordo firmato in Marocco sotto l’egida dell’Onu sembra solo la ratificazione di accordi presi localmente, nella fattispecie dal governo di Tobruk e dalle forze che controllano Misurata, essenzialmente per contrastare l’antagonista governo islamista di Tripoli, non a caso fuori dall’accordo, insieme ad altre formazioni e, ovviamente, all’Isis che occupa Sirte.
I rapimenti sono avvenuti a Mellitah, tra Tripoli e la Tunisia, da dove parte il gasdotto Greenstream, 75% proprietà Eni e 25% dell’Ente petrolifero libico. Con i suoi 520 km, fino a Gela in Sicilia, è il gasdotto più lungo sotto il Mediterraneo, dove raggiunge profondità anche superiori ai 1100 metri, è stato realizzato da Saipem e ha una portata di 8 miliardi di metri cubi di gas.
I media internazionali, soprattutto francesi e inglesi, sottolineano come l’Eni sia l’unica società petrolifera rimasta operativa in Libia, nonostante la situazione di guerra conseguente all’abbattimento di Gheddafi. A essere cattivi, si potrebbe leggere una nota di sorpresa, visto che non è del tutto azzardato sostenere che Francia e Regno Unito, appoggiati da Obama (senza l’avallo del Congresso), attaccarono il despota libico non solo per uno sviscerato amore per la democrazia, ma per scalzare la posizione dominante dell’Eni in favore delle proprie compagnie.
Rimane il fatto concreto del completo disinteresse per le conseguenze del loro intervento in Libia e in tutta quella nevralgica area, per non parlare dell’utilizzo delle cose libiche per l’ignobile traffico di migranti da Medio Oriente e Africa. Non a caso, le conseguenze negative di questa drammatica situazione si riversano in primo luogo sull’Italia.
Una completa ritirata dalla Libia avrebbe costi pesanti per l’Eni e le altre società che vi operano, a partire dal non utilizzo di un’opera simbolo di eccellenza tecnologica come il Greenstream, mentre sembrerebbero più limitate le conseguenze sui rifornimenti di petrolio e gas. La riduzione consistente delle importazioni dalla Libia dopo la caduta di Gheddafi è stata già sostituita da altre fonti di approvvigionamento e l’incremento nella produzione libica degli ultimi mesi è avvenuto in concomitanza del continuo aumento della produzione mondiale e delle scorte.
È da vedere quanto più costose saranno queste fonti alternative, in buona parte anch’esse in aree non “tranquille”, e quanto aumenterà la dipendenza da compagnie non italiane. Credo che, sotto questo profilo, l’Eni stia facendo la sua parte, per esempio con la presenza in prima fila nella possibile ripresa della produzione ed esportazione di petrolio e gas iraniano. È tuttavia necessario che il governo si doti di una precisa e adeguata politica nei confronti del settore energetico, fondamentale per il nostro Paese. L’impressione è che per il momento tale politica sia affidata alla sola Eni, di cui il governo vorrebbe, paradossalmente, addirittura vendere un qualche percento per fare cassa.