Cronaca di un giorno ordinario, 22 luglio dell’anno in corso. Nel villaggio palestinese di Beit Ula, nel distretto di Hebron, le forze di “sicurezza” israeliane hanno completato lo sradicamento di 400 alberi di ulivo. Quando sono i militari a compiere queste operazioni, la motivazione ovviamente è la “sicurezza” delle zone adiacenti alle basi militari, alla barriera di separazione oppure agli insediamenti civili ebraici. La conseguenza sempre è l’esplodere della rabbia tra i palestinesi, ma anche il diffondersi della rassegnazione di fronte alla tentazione di emigrare. Quando, invece, sono i coloni ebrei a tagliare o ad incendiare gli alberi d’ulivo la ragione è più brutalmente manifesta: spingere subito gli agricoltori palestinesi ad abbandonare le proprie terre.



E’ ragionevole credere che il nome del villaggio palestinese di Beit Ula non rimanga nella memoria del Presidente del Consiglio Matteo Renzi di ritorno dal suo viaggio in Israele e in Palestina. Un viaggio, in verità, annunciato nei comunicati ufficiali italiani come in “Palestina” e non più nei “Territori palestinesi”. Un cambiamento, è giusto ricordarlo, introdotto per primo da Papa Francesco e dalla diplomazia vaticana nel suo viaggio in Terra Santa del maggio 2014. La forma dei comunicati certo è importante, ma non sempre è sostanza. Per questo anche questo viaggio di Renzi in Palestina ha sfiorato se non addirittura ignorato quella cronaca ordinaria, che trova in Beit Ula un nome. Ci sono già altri nomi che oggi dovremmo aggiungere, così come sono costretti a fare i palestinesi: Beit El, Giv’at Ze’ev, Psagot, Beit Arieh e Giv’on. Tutte colonie ebraiche in territorio palestinese, sulla strada che da Gerusalemme raggiunge Nablus. Le cronache, di fonte israeliana, ci dicono che 906 abitazioni verranno presto costruite in queste cittadine, 4500 coloni ebrei si aggiungeranno agli oltre 500 mila che già vivono a Gerusalemme est e negli altri territori palestinesi.



Anche questi nomi Renzi non porterà con sé, né li ha citati nei suoi discorsi in terra israeliana o in terra palestinese. E’ volato più in alto: qualcuno potrebbe aggiungere “ovviamente”. Davanti ai parlamentari israeliani, alla Knesset, Renzi ha detto “La pace sarà possibile solo con due Stati e due popoli”. Parole che potrebbero essere un richiamo, anzi un ammonimento, a quella composita destra israeliana che ha come obiettivo di rinchiudere per sempre in un cassetto ogni progetto di Stato palestinese. Volare “alto” in Israele e in Palestina ha significato, ormai da decenni, guardare verso il cielo e non verso terra. Le cronache quotidiane hanno il nome di Beit Ula e Psagot, hanno il peso di confische di terra, di emigrazioni forzate, di colonizzazioni sempre più estese. La possibilità di uno Stato palestinese si è affievolita ogni anno di più perché non gli Stati Uniti, non l’Europa, non l’Italia hanno avuto il coraggio politico di imparare quei nomi e protestare davanti alle conseguenze politiche devastanti per i colloqui di pace. E c’è un altro nome, ben conosciuto, ma ugualmente ignorato: Gerusalemme. I governanti israeliani, Netanyahu prima di tutti, vogliono Gerusalemme città unificata sotto Israele.



Quale spazio per le aspirazioni culturali, religiose e politiche di milioni di palestinesi, di arabi e di musulmani che guardano a Gerusalemme come “anche “ la loro città? Davanti all’intransigenza israeliana Stati Uniti, Europa, Italia tacciono, anzi fanno un passo indietro. Non è nostro compito decidere il futuro di Gerusalemme, dicono. Che siano le parti in causa a farlo, aggiungono. Il peso delle parti è però totalmente sbilanciato. Gli israeliani sono più forti: militarmente, economicamente ed anche, per lungo tempo, sul fronte delle alleanze internazionali. Ora davanti alla prima grande sconfitta politica di Israele per il raggiunto accordo tra Iran e comunità internazionale sul nucleare, gli Stati Uniti, l’Europa ed anche l’Italia hanno l’occasione e la necessità di una seria riflessione politica sul conflitto israelo palestinese. Possono far finta che non esista; possono abbracciare Netanyahu e credere che la sua politica sul terreno non sia dannosa per un accordo di pace; possono ignorare l’emarginazione in Israele di un milione mezzo di arabo-israeliani; possono anche ignorare le aspettative dei palestinesi e delle loro rappresentanze; possono rifornire di nuove sofisticate armi Israele. Questo possono fare, questo stanno facendo. Invocando la sicurezza di Israele e la comune lotta al terrorismo. Con una sola avvertenza: fin quando il conflitto israelo palestinese non verrà risolto con giustizia, il Medio oriente non avrà pace ed il fondamentalismo islamico avrà più forza. Queste non piccole conseguenze investono anche l’Italia.