“Dietro al sequestro dei quattro italiani in Libia non ci sono i trafficanti di immigrati, ma delinquenti comuni in cerca di denaro facile o gruppi vicini all’Isis che vogliono ricattare il governo italiano”. E’ la lettura di Gian Micalessin, inviato di guerra de Il Giornale, più volte in Libia per seguirne le tormentate vicende dalla caduta di Gheddafi a oggi. Ancora nessuna notizia ufficiale sulla sorte di Gino Pollicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla, i quattro dipendenti della Bossetti rapiti vicino allo stabilimento Eni di Mellitah. “Prudenza, riserbo e molto valore sono necessari per riportare a casa i quattro nostri connazionali”, si è limitato a commentare ieri il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.

Micalessin, perché esclude che dietro al rapimento ci siano i trafficanti di immigrati, i quali potrebbero mirare alla liberazione degli scafisti arrestati di recente?

Gli scafisti non metterebbero sicuramente in piedi un rapimento per farsi restituire dei semplici “scagnozzi”. Si tratta di un sequestro complesso, che rischia di metterli nel mirino dell’Italia e delle organizzazioni internazionali, il tutto per farsi restituire una “manovalanza” utilizzata per guidare i barconi. Escludo quindi in maniera assoluta che ci sia un’organizzazione di scafisti dietro al rapimento.

Secondo lei che cosa significa il fatto che il rapimento sia avvenuto proprio vicino a Mellitah?

Ricordiamoci che l’Eni è l’unica compagnia internazionale che è riuscita a mantenere la produzione in Libia agli stessi livelli precedenti a Gheddafi. Ciò è avvenuto pagando le milizie e le tribù che garantiscono la difesa dei pozzi. I problemi sono iniziati quando gli scontri tra le milizie di Zintan, cui l’Eni si era affidata inizialmente per la protezione dell’impianto, e quelle di Zwara, cui l’Eni si è affidata dopo la metà del 2013, sono diventate vere e proprie battaglie. Quando ho compiuto una passeggiata intorno allo stabilimento di Mellitah io stesso lo ho constatato trovando il terreno disseminato di bossoli. Il rapimento potrebbe quindi nascere da una rappresaglia delle tribù di Zintan che negli ultimi tempi erano avanzate verso la costa.

Gli italiani potrebbero essere finiti anche in mano a gruppi legati all’Isis?

Sì. Ci sono alcuni gruppi vicini all’Isis che gravitano intorno ai campi di addestramento di Sabratha. L’area dista 22 chilometri da Mellitah, ed è stato indicato dai servizi segreti tunisini come il centro d’addestramento da cui sono usciti sia l’attentatore del museo del Bardo sia quello delle spiagge di Soussa. Questa vicinanza tra Sabratha e Mellitah è molto inquietante, anche perché all’inizio del 2014 sulle spiagge di fronte a Mellitah furono trovati uccisi un’inglese e un neozelandese.

Terza ipotesi, un’azione di criminali in cerca di un riscatto. Lei come la vede?

Esiste la possibilità che gli italiani siano stati presi da criminali comuni. Il problema è che gli occidentali rapiti sono “merce” vendibile sul mercato, e quindi possono facilmente finire nelle mani dell’Isis. Non dimentichiamoci che cosa vorrebbe dire avere quattro ostaggi italiani nelle mani del Califfato alla vigilia di un’operazione europea che vede l’Italia come capo-missione. Si tratta di un intervento complesso che deve dare la caccia ai trafficanti di uomini, ma che deve anche operare di fronte alle coste libiche. Non dimentichiamoci che l’operazione è già stata apertamente criticata da Fajr Libia, la coalizione islamista al potere a Tripoli.

 

Quindi potrebbe c’entrare anche Fajr Libia?

Questa è appunto la quarta ipotesi. Il rapimento è avvenuto in territorio controllato dalla coalizione islamista di Fajr Libia, anche se soggetto all’autorità di Zwara. La scorsa settimana l’Onu ha firmato l’accordo di riconciliazione della Libia insieme a Tobruk, m a non a Fajr Libia. Questo accordo era stato salutato da Renzi con entusiasmo. Dietro al rapimento ci potrebbe essere dunque un gruppo legato a Fajr Libia che voleva punire l’Italia per avere assecondato questo accordo che ha escluso Tripoli.

 

Alla luce di queste considerazioni, condivide le affermazioni del presidente Mattarella secondo cui “è nel mirino qualunque Paese che si batta per la tolleranza, la civiltà e il rispetto delle vite umane”?

Noi siamo il primo Paese nel mirino. L’Italia in questo momento deve prestare grandissima attenzione perché siamo l’ex potenza coloniale che ha governato la Libia, la nazione che ha i maggiori interessi strategici, che risente di più del peso dell’immigrazione e che storicamente ha più rapporti in Libia.

 

Con quali conseguenze?

Tutto ciò espone il nostro Paese agli attacchi dell’Isis. Non a caso da quando il Califfato ha messo radici in Libia, le minacce all’Italia si sono moltiplicate a dismisura. La Libia rischia di essere il nostro Afghanistan, con l’Italia costretta a sperimentare un 11 settembre sul nostro territorio. Senza dimenticare che Roma è anche la sede del Vaticano, e quindi rappresenta una doppia sfida. Lo Stato Islamico ha tutto l’interesse a presentarsi come l’organizzazione in grado di colpire anche la religione che più fa concorrenza all’Islam, almeno dal punto di vista ideale e cioè il Cattolicesimo.

 

(Pietro Vernizzi)