La riunione straordinaria della Nato, tenutasi ieri su richiesta della Turchia, è stata convocata in base all’Art. 4 del trattato, che prevede consultazioni tra gli Stati membri di fronte a un pericolo per uno di loro, fatto piuttosto raro nella storia della Nato. La motivazione addotta è stata la minaccia che l’Isis rappresenta per la Turchia e sia la procedura che la motivazione hanno un po’ sorpreso molti osservatori. La sorpresa deriva dalla repentina svolta di Ankara verso l’Isis, nei cui confronti aveva finora tenuto un atteggiamento piuttosto “morbido”, non impedendo di fatto nel suo territorio il commercio clandestino di petrolio, fonte notevole di finanziamento del califfato, e lasciando passare per le sue frontiere armi e combattenti.
Dalla settimana scorsa, invece, l’aviazione turca sta colpendo le postazioni dell’Isis e Ankara, finalmente, ha concesso agli aerei americani di utilizzare la base di Incirlik per le loro missioni. La Nato ha escluso ogni intervento diretto in Siria, pur esprimendo la completa solidarietà alla Turchia per la sua lotta al terrorismo; da parte sua, Erdogan ha invece invitato la Nato a un maggior coinvolgimento di fronte all’attacco in corso a un suo membro. Come riprova, ha menzionato il grave attentato di Suruc, attribuito all’Isis, che ha provocato 32 morti ma che è difficile considerare come attacco diretto alla Turchia. D’altra parte, fino a ieri lo stesso governo di Ankara non sembrava vedere nell’Isis una minaccia diretta e anche l’attentato di Suruc ha colpito dei volontari che stavano portando aiuti ai curdi siriani di Kobane che combattono l’Isis, quindi una ritorsione contro i curdi e non un attacco ai turchi.
La convocazione della Nato sembra quindi avere un significato politico di copertura del cambio di strategia della Turchia, motivato peraltro con giustificazioni discutibili. Rimane quindi la domanda su quali siano i reali motivi dietro il cambiamento. Un inizio di risposta viene dalla notizia dell’accordo tra Turchia e Stati Uniti, di cui ha parlato Carlo Jean nella sua intervista al Sussidiario, per la costituzione di una ampia zona franca nel nord della Siria, lungo i confini con la Turchia, da porre sotto controllo degli oppositori “democratici” di Assad (le virgolette in attesa di conoscere i parametri di scelta per tale definizione) e degli stessi turchi. Come dice il generale Jean, la costituzione di questa area è impossibile senza l’intervento di truppe di terra, che non possono che essere turche. La cosa è stata ben accolta dagli oppositori siriani e può rappresentare un sollievo anche per i profughi siriani; in effetti, Ankara ha già accennato al rimpatrio in tale zona dei quasi due milioni di siriani rifugiati sul suo territorio. C’è da sperare che almeno le loro condizioni di vita possano essere migliori, perché la loro sicurezza difficilmente lo sarà. C’è da aspettarsi, infatti, che i miliziani del califfato non desistano facilmente dal tentativo di riprendere il controllo della zona, né c’è molto da contare sul fatto che non esplodano conflitti tra le varie fazioni ribelli e, infine, è probabile la reazione del regime di Assad alla sottrazione di proprio territorio da parte di un altro Stato, per di più un tempo alleato.
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L’obiettivo immediato di Erdogan è probabilmente l’abbattimento di Assad più che la cancellazione del califfato e, inoltre, con il coinvolgimento in Siria parteciperebbe direttamente alle trattative sulla soluzione politica del problema siriano, appoggiata dalla Russia e, a questo punto, forse anche dagli Usa, con la formazione di un governo di transizione che porti a una nuova sistemazione del Paese. Altrimenti, come dice Jean nell’intervista, l’unica alternativa è una Siria come la Libia. L’accordo raggiunto dagli Usa con Teheran è probabilmente il fattore che ha fatto decidere Erdogan, perché l’Iran è già parte della soluzione, dato il suo sostegno al regime di Assad, e l’accordo sul nucleare gli consentirà di far parte anche formalmente delle trattative. Le due potenze regionali non sono ai ferri corti tra loro, come invece l’Arabia Saudita con l’Iran, e possono quindi confrontarsi per via diplomatica, sostenendo la Turchia gli interessi dei siriani sunniti e l’Iran quelli degli alauiti sciiti.
Sulla scena vi è però un terzo incomodo rappresentato dai curdi, finora i più decisi oppositori dell’Isis, contro i quali hanno combattuto tenacemente e con successo. Tuttavia, i curdi rappresentano da tempo un problema per la Turchia con le loro richieste di indipendenza. Questa popolazione indoeuropea, musulmana sunnita, è divisa tra Turchia, Iraq e Siria, ma da sempre sogna la creazione di un Kurdistan indipendente. I curdi in Iraq hanno raggiunto una notevole autonomia, grazie anche allo scontro tra arabi iracheni sunniti e sciiti, ma in Turchia sono stati a lungo repressi e una loro organizzazione in particolare, il PKK, è stata dichiarata internazionalmente terrorista.
Forse si ricorderà che il suo fondatore e leader, Abdullah Ocalan, trovò rifugio in Italia tra il 1998 e il 1999 chiedendo asilo politico, che gli fu rifiutato dal governo D’Alema per le pressioni turche e americane. Rifugiatosi in Kenya, fu arrestato da agenti turchi e sta ora scontando l’ergastolo in Turchia. Negli ultimi anni era stato avviato un processo di pacificazione che sembrava prospettare finalmente una soluzione del problema curdo, ma ora anche qui la strategia di Erdogan sembra essere cambiata e, in occasione dell’incontro Nato, ha accomunato i curdi del PKK ai terroristi dell’Isis. Sul campo, i turchi stanno bombardando anche basi curde in Iraq e, affermano i curdi, anche in Siria, dove il PKK collabora con altre formazioni curde nella lotta contro il califfato.
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C’è chi collega questa rottura con la situazione in Turchia dopo le recenti elezioni, nelle quali il partito di Erdogan non ha raggiunto la maggioranza ed è ora in difficili trattative per la costituzione del nuovo governo. Il partito curdo ha invece avuto un buon risultato elettorale e accusa ora Erdogan di voler riaprire la questione curda per andare a nuove elezioni e vincerle presentandosi come il difensore della Turchia dagli attacchi esterni e interni. Rimane il fatto che la ondata di arresti seguita ai vari recenti attentati sembra colpire più il PKK e altri movimenti di sinistra o oppositori del governo che non aderenti all’Isis. La nuova strategia di Ankara sembra quindi porre a Usa e Ue molti più problemi di quanti ne possa risolvere.