Una delle maggiori critiche fatte a Barack Obama è la mancanza di una politica estera efficace che ha caratterizzato i suoi due mandati. A poco più di un anno dalla sua scadenza come presidente, Obama sembra deciso a recuperare terreno, se non altro per cercare di rispettare almeno in parte le speranze suscitate dalla sua elezione nel 2008, che gli avvalsero perfino un affrettato Nobel per la Pace. Inoltre, l’insoddisfacente politica estera della sua Amministrazione è un’arma in mano ai Repubblicani nelle incerte prossime elezioni. 



In questa luce vanno viste le due mosse compiute da Obama nell’intricato scenario mediorientale: la conclusione dell’accordo sul nucleare iraniano e il più recente accordo con la Turchia per l’intervento in Siria contro l’Isis. Quest’ultimo può essere considerato una ripresa della storica alleanza tra Usa e Turchia, un po’ raffreddatasi dopo che ad Ankara un governo di stampo confessionale ha sostituito il precedente dichiaratamente laico. L’accordo con la Teheran degli ayatollah, sia pure in fase ancora iniziale, rappresenta invece un drastico cambiamento di politica. Non si può certo parlare di rovesciamento delle alleanze, Khamenei si è affrettato a ridefinire gli Usa il “Grande satana”, ma è significativa la forte preoccupazione e opposizione di due alleati tradizionali come Israele e Arabia Saudita.



I rapporti con Israele si sono molto raffreddati nei due mandati di Obama, anche per la progressiva radicalizzazione del governo israeliano, e l’Arabia Saudita ha iniziato un guerra del petrolio il cui principale obiettivo sono proprio gli Stati Uniti e il loro petrolio di scisto. Turchia e Iran possono anche marciare tatticamente di conserva, per esempio nello spartirsi le aree di influenza in Siria o nel contrastare l’Isis, ma è difficile ipotizzare un’alleanza strategica tra i due Stati, tanto più se Erdogan volesse veramente rifarsi alle modalità di controllo della regione proprie del passato Impero ottomano.



L’intervento turco in Siria può rappresentare un grave colpo per l’Isis, ma il principale interesse immediato di Ankara sembra essere la ripresa della lotta contro i curdi, riaprendo così un altro gravissimo problema. Erdogan sostiene che l’obbiettivo è solo il marxista PKK, ma questa organizzazione sta combattendo a fianco degli altri curdi siriani e iracheni contro l’Isis e sarà molto difficile per i turchi fare operazioni “chirurgiche”. Tutto ciò rischia di aggravare la già difficile situazione dell’Iraq e configurarsi come un pesante smacco per Obama.

Le ultime iniziative indicano una notevole retromarcia di Obama rispetto alle posizioni, mantenute fino a tempi recenti, di “crociata” contro i dittatori in nome di una difesa, un po’ ideologica, della democrazia. L’appoggio dato a Francia e Regno Unito per abbattere Gheddafi ha gettato la Libia nel caos e in Siria Obama non solo non è riuscito a far cacciare Assad, ma è costretto ad accettarlo come cobelligerante contro l’Isis. La coalizione contro il regime di Damasco ha prodotto il califfato e le formazioni ribelli addestrate dagli americani sono sotto continuo attacco di Isis e di al Nusra, collegata ad al Qaeda. Da qui la necessità dell’intervento turco, pur con gli altri problemi che sta provocando.

L’impressione è che non si sia di fronte a una rielaborazione di una strategia globale, che richiederebbe ben altro tempo e pensiero, ma al tentativo di risolvere separatamente alcuni problemi più “visibili” e di maggiore impatto mediatico. Per esempio, con la riapertura delle relazioni con Cuba, anche se il regime cubano non sembra avere compiuto grandi aperture verso la democrazia.

Cuba è considerata dagli americani una specie di avamposto russo nel proprio cortile di casa (vi ricordate Kennedy e la Baia dei Porci?) e il riavvicinamento con L’Avana può essere una nuova mossa nella partita di Obama contro Putin. Raul Castro si è affrettato a sottolineare la solidità dei rapporti con Mosca, partecipando ostentatamente alla parata militare per il settantesimo della vittoria sui nazisti. È probabile che i cubani cerchino di trarre vantaggi economici da entrambi i fronti, anche perché a Cuba sta venendo a mancare l’apporto del Venezuela, altro Stato non proprio amico degli Usa, alle prese con la crisi petrolifera. Forse nel futuro di Cuba ci sono forniture di shale oil americano.

In Africa la presenza statunitense è sempre stata sottotraccia, con aiuti e consulenze militari ad alleati europei, come la Francia nella Repubblica Centroafricana, o a governi locali. La recente visita di Obama in Kenya, terra dei suo avi paterni, ha fatto parlare dell’inizio di una nuova strategia anche nei confronti del continente africano. È tuttavia troppo presto per capire la portata reale di questa visita, fortemente caratterizzata dalla storia personale di Obama. 

Buona parte del discorso ufficiale di Obama si è incentrata sulla questione dei diritti civili e del razzismo, registrando la netta presa di distanza del presidente keniano sui diritti dei gay. Inoltre, molti commentatori, anche in Kenya, hanno sottolineato che l’interessamento di Obama per l’Africa avviene in deciso ritardo e alla fine del suo mandato. Né più chiara pare la posizione degli Usa nei confronti di quell’altro importante attore, nel continente africano e nel Medio Oriente, che è l’Egitto. Proprio al Cairo, nel 2009, Obama tenne il suo primo discorso di politica internazionale, che sembrò indicare nella Fratellanza Musulmana la chiave di volta per la soluzione dei problemi dell’area. L’attuale regime egiziano sta effettuando una violenta repressione proprio contro i Fratelli Musulmani, né il governo del generale Al Sisi può essere entusiasta della situazione che Obama ha aiutato a creare nella confinante Libia. 

La regione in cui gli Stati Uniti possono trovarsi coinvolti direttamente è il Pacifico, dove la Cina sta effettuando un’aggressiva politica nei confronti dei Paesi vicini. La novità rilevante è la decisione del Giappone di far partecipare propri militari in conflitti esterni, rompendo una tradizione di non belligeranza che dura dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il budget della difesa giapponese continua ad aumentare, più o meno apertamente in funzione anti-cinese, ma rimane un quarto di quello di Pechino.

La prospettiva di uno scontro diretto tra Cina e Giappone preoccupa vivamente gli Stati della regione, e non solo, che vedono dietro le iniziative di Tokyo il sostegno statunitense. Il Giappone è l’unico grande alleato degli Usa che non ha aderito al progetto cinese di nuova banca di sviluppo per il Pacifico, iniziativa contrapposta al Ttp sostenuto da Obama.

Per quanto riguarda infine la questione ucraina, il recente esplicito riconoscimento di Obama del ruolo positivo di Putin nelle trattative con l’Iran potrebbe far pensare a una possibilità di accordo tra Usa e Russia su questa tragica vicenda. Forse Obama si sta rendendo conto che, nel panorama descritto, continuare a spingere la Russia al fianco della Cina è un’operazione sconsiderata. Sarebbe paradossale, però, che un accordo tra i due passasse sopra la testa di un’Unione europea intenta a guardarsi l’ombelico.