Il vostro cronista si è goduto anche lui in diretta “Trump contro tutti”, il confronto tv fra i candidati alle primarie repubblicane per le presidenziali 2016. E forse questo spillo avrebbe potuto essere inviato al sussidiario via fuso orario già la mattina di venerdì 7. Ma sarebbe stato inevitabilmente centrato su “chi ha vinto/chi ha perso”, oppure pieno di colore superficiale sull’istrionesco protagonista. Solo con il passare dei giorni – e con i suoi seguiti e ricadute – il debate è divenuto un istantaneo “evento da annale”, da approfondire oltre la cronaca. E si è pure fatto spazio sulle prime pagine dei media italiani: non per caso e non solo riempiendo il vuoto del mezzo agosto.



L’esito, per la verità, non era del tutto atteso neppure negli Usa. Non è stato banale, anzi è stato molto significativo leggere, giovedì notte a caldo, i complimenti pubblici delle vacche sacre liberal del New York Times ai tre colleghi della Fox per come avevano tenuto le briglie del rodeo fra i “magnifici dieci” repubblicani: il più seguito confronto politico tv di sempre negli States a livello di primarie. Ma che qualcosa, anzi molte cose fossero successe era risultato chiaro anche al vostro modesto cronista – in trasferta e in jet lag – un occhio allo schermo e l’altro ai telespettatori attorno.



Mi trovavo in un ristorante di Cape Cod, penisola vacanziera sull’Atlantico, a due passi da Boston, meno di un’ora d’aereo da Manhattan. Martha’s Vineyard – dove sono in questi giorni in ferie i coniugi Obama, entrambi laureati ad Harvard – è di fronte. A Hyannis Port c’è ancora “Camelot”: casa Kennedy. E’ l’America dell’East Coast che si ritiene tuttora depositaria ultima di tutto ciò che è democrat, antropologicamente agli antipodi del Grand Old Party repubblicano. Eppure nessuno, la sera del 6 agosto, ha fatto finta di snobbare una rappresentazione tutt’altro che sacra, un grande show politico tra repubblicani storici e “alti” (il terzo Bush) e sedicenti repubblicani spuri e “bassi” come Big Donald.



Tutti a guardarlo e studiarlo, il Nuovo Mostro, arrivato a Cleveland su un Boeing personalizzato che spicca ad occhio nudo dall’autostrada quando è parcheggiato al “La Guardia” di New York. Tutti a fare subito il tifo per Megyn Kelly che (non ha avuto tutti i torti Trump a lamentarsene) ha attaccato immediatamente e a freddo lo “strano candidato”, in un curioso role playing.

Kelly qualche tratto della bimbo platinata dileggiata da Trump con scandalo ormai planetario ce l’ha: è una clausola non scritta del suo contratto di anchorwoman della Fox, network che ha base a Manhattan ma è di proprietà di Rupert Murdoch e – a differenza della Cnn – guarda maggiormente entro i confini di un’America yankee, più profonda e conservatrice. Quando comunque Megyn ha schioccato la frusta femminista del sessismo al centro dell’arena contro l’immobiliarista macho, si è subito respirata aria di derby newyorchese. Molto politico e molto bloody, “sanguinoso”, aspro.

Già, perché dentro e dietro “Meg-la-Bionda”, c’è in realtà è l’attorney Megyn Kelly, laureata in legge all’Albany Law School, l’università da cui è uscito anche l’attuale governatore democratico dello Stato di  New York Andrew Cuomo, figlio di Mario. Già, lo stato di New York rooseveltiano: dove la Kelly è nata a Syracuse, 45 anni fa. Lo Stato di cui è stata senatrice Hillary Rodham Clinton, che da qui ha lanciato nel 2008 la sua prima, fallita, candidatura alla Casa Bianca. Ha vinto – e poi rivinto nel 2012 – Barack Obama di Chicago. E’ la città ultra-democratica in cui – negli stessi anni 90 – si sono fatti le ossa il giovane futuro presidente e la giovane attorney Kelly, presso il grande studio Bickel & Brewer. Ma c’è dell’altro.

Sapete chi è il secondo marito di Megyn, padre dei suoi tre figli? Douglas Brunt, nato nell’aristocratica Filadelfia, è stato brillante finanziere progressista , gestore di incubatori e start up e per tre anni presidente della prestigioso club newyorchese della Young Executive Organization (22mila giovani capitalisti-cervelloni di successo in giro per il mondo). Divenuto velocemente ricchissimo, Brunt, un vero hypster, si dedica ora full time alla passione per la narrativa. Primo volume: “Ghost in Manhattan”, naturalmente best-seller per le edizioni del New York Times. Naturalmente una satira impietosa dell’eterna Grande Mela “senza freni” (nell’occasione quella pre-2008). La New York di cui Trump è da sempre protagonista atipico ma fisso, ruspante e gigantesco, controverso e scomodo ma irrinunciabile.  

Certo, nel rimodellare l’urbanistica della New York contemporanea, Trump ha dichiarato per cinque volte “chapter 11”: fallimento pilotato. E figuratevi se nel corso del dibattito non gliel’ha subito ricordato un altro dei tre moderatori: Chris Wallace. Nato a Chicago, Wallace proviene da una famiglia ebraica e il padre Mike è stato un mostro sacro di 60Minutes, format giornalistico di culto della Cbs e dell’America progessista, “newyorkese”. Chris è stato giovane assistente di Walt Cronkite, “il più credibile giornalista degli Usa”: che comunque non trattenne una smorfia di pianto annunciando la morte di JFK.

A Megyn Trump ha avuto il coraggio rozzo e sfrontato di ridire in faccia quello che pensa delle donne: nella cui eco, tuttavia, c’era soprattutto qualcosa di molto simile a quello che Silvio Berlusconi probabilmente ha solo pensato quattro anni fa del cancelliere tedesco Angela Merkel (oggi lo dicono nella sostanza politica anche i seguaci italiani di Alexis Tsipras e lo dice senza aggettivi il premier Matteo Renzi). Ha fatto capire, il Nuovo Mostro,  che lui – e con lui il 23% di intervistati nei sondaggi anche dopo il dibattito – ne hanno più o meno le scatole piene di essere governati dall’ideologia politically correct. Quella che – in chiave di continuità dinastica – incarnano sia Hillary Clinton (supposta candidata democratica alla successione di Obama) sia Jeb Bush: peraltro il vero, incerto e sbiadito sconfitto della serata di Cleveland.                      

A Wallace Trump ha invece ribattuto con un postulato profondo della civiltà giuridica e forse della civiltà americana tout court: negli Usa un uomo d’affari che fallisce non commette un reato; e il “Chapter 11” è una norma che vale per tutti i cittadini e per tutte le imprese americane. Anche in questo caso un (casuale) telespettatore italiano non ha potuto non rammentare gli infiniti scambi di bordate fra il Cavaliere da un lato e magistrati, politici e giornalisti giustizialisti dall’altro. Berlusconi: l’immobiliarista della Grande Milano che l’intellighenzia milanese – i giornali e le banche, la politica istituzionalizzata, sia progressista che moderata o conservatrice – non hanno mai tollerato e accettato. Ma questo non gli ha impedito di vincere tre volte e mezzo le elezioni: facendo puntualmente leva sui conflitti d’interesse (finanziari, politici, professionali, culturali, mentali) degli altri. Conquistando un’elettorato dove – per ora, in Italia come negli Usa – i voti si contano e non si pesano. 

Per chi voterà fra quattordici mesi la Silicon Valley maschilista? E siamo certi che gli americani afro (Trump direbbe ancora “neri”) – sempre sotto tiro del poliziotto più vicino – non possano apprezzare un candidato per il quale se a uno scappa un insulto non è che va subito arrestato? Sono semplici domanda, fra tante: non certo semi-previsioni tendenziose. Queste annotazioni postume sul debate non sono un giudizio e non vogliono abbozzarne. Ma una settimana fa avrebbero dato più spazio alla buona performance di Marco Rubio – il senatore del Sud candidato quotato da tempo come primo ispanico della Casa Bianca – e all’unico neo (una reticenza “centrista” sull’aborto). Oppure avrebbero segnalato la parziale delusione per Chris Christie, tosto governatore del New Jersey: sull’altra riva del fiume Hudson, in faccia a Manhattan. Una settimana dopo non se ne ricorda più nessuno. E’ solo e sempre di più “Trump contro tutti”. E non è più baraccone, anche se continua un po’ a sembrarlo.

Può darsi che già prima che la partita cominci per davvero – in febbraio in Iowa – o comunque entro il primo martedì del novembre 2016, Trump venga venga fatto a pezzi da media (newyorkesi) o magari da qualche collega attorney di Megyn-la-Bionda in servizio pubblico presso distretti o procure di Stato (Cuomo ha guidato quella di New York prima di diventare governatore…). Oppure può accadere che provino a distruggerlo prima i repubblicani stessi, già apertamente minacciati da Trump di una candidatura indipendente che potrebbe favorire Hillary Clinton (ma sarebbe poi davvero così? E poi anche Hillary sembra già stata messa sulla griglia dei suoi stessi colleghi di partito). Di certo contro il macho Trump non sarà sufficiente sventolare una scappatella politicamente scorretta con una segretaria-bimbo: quelle bastavano, nel ventesimo secolo, per far fuori qualche debole e compito candidato democratico. Per tener buone non le donne adulte, libere elettrici in democrazia, ma le professioniste dell’ormai vecchio femminismo politically correct

Neppure un bel “presunto-scandalo-finanziario” sarebbe un’arma sicura: il Trump inseguito dalle banche assomiglia parecchio a tale Beppe Grillo che è trasmutato in politico vincente nelle piazze piene di obbligazionisti Parmalat, traditi in ultima istanza dalle grande banche di Wall Street. Le stesse che – nel 2008 – hanno deciso con i loro finanziamenti che alla Casa Bianca doveva approdare “il primo presidente afro”. Il massimo del politically correct. Il massimo della protezione contro una ri-regolazione bancaria che imponesse una rieducazione severa ai “lupi di Wall Street”. Ma quelli – per i coniugi democratici Kelly – vanno maltrattati solo in fiction. Nella realtà il nemico mortale resta il “Cavalier” Trump.

In ogni caso non è che l’inizio. E anche la Fox (già vincitrice indiscussa) dirà: restate con noi e gustatevi lo spettacolo. Anche l’America sembra sul punto di voltar pagina. La Guerra Fredda e la Caccia alle Streghe dopo il ’45; Kennedy & Nixon nei sanguinosi anni 60, poi Reagan-Bush Primo, poi Clinton nei favolosi anni 90; poi Bush Secondo, l’11 settembre e il crollo di Wall Street, infine un Obama perennemente “transitorio”, sempre poco leggibile e poco giudicabile: con un’eredità piena di lavori in corso, di problemi irrisolti. E adesso?