La Cina è in questi giorni al centro dell’attenzione per le ripetute svalutazioni della sua moneta, con i risvolti sulla finanza globale, e per l’esplosione del deposito che ha provocato decine di morti e centinaia di feriti, con considerevoli rischi di tipo ambientale. E’ passato perciò in secondo piano un altro evento, molto meno drammatico ma importante per il futuro dell’intero Sud-Est asiatico.



Lo scorso 5 agosto si è tenuta a Kuala Lumpur una riunione dell’Asean, l’associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico, il cui principale argomento di discussione sono state le dispute territoriali su una serie di isole del Mar della Cina Meridionale. Come si ricorderà, alcune isole e le circostanti aree marittime sono contese tra diversi Stati, Cina, Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei e Taiwan, sulla base di complicate motivazioni storiche e giuridiche. La Cina ha reso la questione molto più pesante con la costruzione di diverse isole artificiali nell’area contesa, suscitando le reazioni non solo dei Paesi citati, ma anche degli Stati Uniti.



Accanto alla questione territoriale, vi è il timore che queste opere possano essere utilizzate anche per azioni militari, come la lunga pista agibile da gran parte degli aerei militari cinesi. L’altra preoccupazione è che la Cina possa interferire in questo modo nel diritto di navigazione in una zona estremamente importante per l’intero commercio mondiale.

Alla fine dell’incontro, i ministri degli Esteri dell’Asean hanno emesso un comunicato in cui si afferma che le costruzioni sulle isole hanno intaccato la fiducia, aumentato le tensioni e costituiscono una minaccia per la pace e la sicurezza dell’intera regione. Non vi è però alcun riferimento esplicito alla Cina. Secondo The Guardian, alcuni Paesi membri, in particolare Filippine e Vietnam, avrebbero richiesto una formulazione più netta del comunicato, ma sono stati bloccati dai ministri di altri Stati più vicini alla Cina, quali Cambogia, Laos e Birmania.



Gli Stati Uniti, presenti come osservatori con il segretario di Stato John Kerry, hanno dichiarato la loro neutralità nel merito della questione territoriale, ma ribadito la loro difesa del diritto internazionale sulla libertà di navigazione e la loro preoccupazione per la stabilità della regione e per una sua progressiva militarizzazione.

Anch’egli presente come osservatore, il ministro degli Esteri cinese ha dichiarato che la Cina ha già bloccato ogni costruzione, affermazione accolta con un certo scetticismo da molti Stati e arrivata, comunque, a lavori pressoché finiti. Wang ha poi detto che la Cina ha tutto l’interesse a mantenere la libertà di navigazione e la pace, aggiungendo che gli attuali conflitti possono essere pacificamente risolti dagli Stati coinvolti, con un non tanto implicito accenno al fatto che quelli fuori dell’area non dovrebbero impicciarsene.

Insomma, una specie di “l’Asia agli asiatici” che ricorda lo staliniano “l’Europa agli europei”, anche allora rivolto agli americani. Un invito in cui è difficile, peraltro, includere una potenza decisamente asiatica come il Giappone, con cui la Cina ha un’altra controversia nel Mar Cinese Orientale, forse ancor più pericolosa. Attorno alle isole in discussione, le Sensaku o Diaoyu, già da alcuni anni si rischiano scontri tra le guardie costiere cinesi e giapponesi e la situazione non è ultimamente migliorata. La Cina sta rafforzando la propria guardia costiera e costruendo basi navali e aeree sul proprio territorio, ma tali da poter intervenire rapidamente nell’area contesa. Recentemente si è aperto un altro contenzioso sullo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi della zona, giacimenti che, per inciso, sono presenti anche nel Mar Cinese Meridionale.

Secondo alcuni analisti, anche le attuali manovre sul cambio del renminbi vanno viste soprattutto in funzione anti giapponese e, in effetti, Tokyo ha reagito immediatamente dicendosi pronta a tutte le misure necessarie a difendere la propria economia, prospettando un nuovo pesante quantitative easing. La pericolosità di questa situazione deriva dal coinvolgimento diretto del più importante alleato del Giappone nella regione, cioè gli Stati Uniti, anche se ciò può apparire un po’ paradossale nel settantesimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki.

Le tensioni nel Mar Cinese e la caotica e tragica situazione del Medio Oriente dovrebbero suggerire la chiusura di altri fronti, come quello ucraino che, pur cacciato in una sorta di limbo, rimane drammaticamente aperto. L’esito del conflitto ucraino, oltre i quasi 7mila morti, le centinaia di migliaia di profughi e l’economia del Paese sull’orlo del collasso, è stato anche un progressivo, e abbastanza innaturale, riavvicinamento della Russia alla Cina. Cioè l’esatto contrario della politica statunitense degli ultimi decenni, un’inversione di rotta di cui è francamente difficile vedere i vantaggi per gli Usa e per il resto del mondo.

A meno di condividere il titolo di un recente articolo di Sputnik Italia: “Russia e Cina insieme possono cambiare ordine mondiale a propria discrezione: incubo Usa”. Direi non solo loro.