La crisi greca e l’eventuale possibilità di default hanno fatto ritornare alla mente l’Argentina del 2001. Si è avuta la certezza di una cosa: il trascorrere del tempo e l’immensa quantità di “balle spaziali” propinate non solo durante questi anni nello stesso Paese latinoamericano, ma pure “esportate” all’estero, hanno contribuito a disegnare pagine epiche purtroppo molto simili ad altre fabbricate sui dolorosissimi anni Settanta argentini. Un’altra cosa è sicura e sotto un certo punto di vista pure incredibile: nonostante le enormi affinità culturali dovute principalmente sia alla Conquista spagnola, ma sopratutto alle masse migratorie, del Continente latinoamericano, si ha un’immagine molto distorta quasi quanto quella del Vecchio continente in Sudamerica. Insomma, manca un dialogo maturo consapevole delle enormi ricchezze e opportunità da ambo le parti. Le ragioni possono essere individuate, da una parte, nell’egoismo europeo che considera ancora l’America Latina alla stregua del giardino di casa, dall’altra, in una specie di complesso di inferiorità, totalmente ingiustificato ma presente nel “nuovo mondo” quando si parla di Europa. Basti pensare all’Unione europea che viene giudicata un modello da imitare, anche se nella realtà è ben altro.
Fatta questa premessa, che ritengo doverosa per capire il resto, passiamo a un’analisi del tragico dicembre 2001 argentino. Di comune con la Grecia c’è da registrare la causa del default, visto che in entrambi i casi l’origine si deve a situazioni che si possono tranquillamente definire truffe: da una parte la manipolazione delle cifre che avrebbero permesso alla nazione ellenica l’entrata nell’eurozona; dall’altra una situazione di economia fittizia costruita per allontanare lo spettro che da decenni affligge l’economia argentina: l’inflazione, anzi la super-inflazione, già vissuta varie volte. La soluzione al problema era già stata affrontata dal primo Governo democratico di Alfonsin con una parità col dollaro che doveva essere garantita dal Fmi attraverso iniezioni di capitali atte a far ripartire l’economia, fatto reso impossibile dalla negazione degli aiuti proposta, guarda caso, dal consulente del Fondo, l’economista Domingo Cavallo, che provocò non solo un disastro economico, ma anche la caduta del Governo e il ritorno del potere nelle mani del peronismo con il Governo Menem.
Gli anni Novanta sono stati caratterizzati dal “decennio menemista”, nel quale l’Argentina ha conosciuto un boom di consumi grazie alla convertibilità con il dollaro opera proprio di quel Cavallo, diventato ministro dell’Economia, che pochi anni prima aveva convinto il Fmi a non aiutare il Governo precedente. Allo stesso tempo venne messa in marcia una serie di privatizzazioni che se da un lato sembravano portare il Paese al passo con i tempi (basti pensare che fino ad allora, per esempio, avere una linea telefonica comportava un’attesa media di 14 anni, mentre dopo la privatizzazione di Entel, la società telefonica di Stato, l’attesa si era ridotta a pochi giorni) dall’altro aumentavano a dismisura il costo della vita (un caffè a Buenos Aires costa 4 volte che a Tokyo). Inoltre, i licenziamenti di massa operati nelle entità statali privatizzate e la caduta dell’industria nazionale hanno creato un’enorme sacca di disoccupazione che ha fatto aumentare la povertà fino a un 40% della popolazione. Di contro la classe media (alla quale appartiene l’enorme apparato statale, nonostante i tagli) ha goduto di un periodo di prosperità senza precedenti, che ha portato a una vera e propria follia collettiva con l’illusione di economia forte. Le importazioni si sono quindi decuplicate mentre le esportazioni sono rimaste limitate al solo campo agricolo e di allevamento, settori trainanti dell’economia, anche se a costi enormi a causa del cambio.
Avvenne così che da una parte si instaurasse il fenomeno delle spese pazze, con vagoni di persone a prendere l’aereo il venerdì per andare a fare spesa a Miami, dall’altra che nei supermercati argentini venisse venduto mais importato dalla Spagna. Ci fu una corsa ai consumi frenetica, sospinta anche dal sistema bancario che concesse carte di credito a tutti con grande facilità, incrementando gli acquisti a rate.
L’Argentina in pratica perse il controllo sulle sue risorse, utilizzando l’enorme disponibilità di capitali del Fmi per sostenere la parità artificiale con il dollaro. È chiaro che un simile palloncino, gonfiandosi, era destinato a scoppiare in pochi anni, ma l’artefice di questa ennesima favola, Menem, lo ha lasciato nelle mani del radicale De la Rua (vincitore delle elezioni nel 1999), un politico espressione di un’alleanza tra settori radicali e la sinistra peronista, che si è dimostrato di una piattezza unica, non essendo capace di prendere una decisione senza paura di sbagliarla.
E difatti non ne ha azzeccata una. La convertibilità non può più mantenersi, è necessaria una svalutazione, ma la seppur critica situazione che si sviluppa prima del fatidico dicembre del 2001 non lo convince al grande passo. Anzi, nomina lo stesso Domingo Cavallo ministro dell’Economia. E il pluridecorato “esperto” finanziario purtroppo non può ripetere il miracolo: lo Stato entra in un vorticosissimo debito la cui diffusione a livello mediatico provoca il ritiro di capitali dalle banche da parte di grandi gruppi, ma anche di piccoli risparmiatori. Cavallo tenta di opporsi cercando l’aiuto del Fmi. Ma stavolta l’organizzazione chiude i rubinetti, anche perché gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, decidono di porre la loro attenzione e risorse nell’aiutare un altro Paese, nell’area orientale: la Turchia.
E arriva il fatidico giorno dell’annuncio della chiusura delle banche, del blocco dei conti e più tardi, dopo la caterva di manifestazioni e tumulti, la dichiarazione del coprifuoco, che invece di diminuire moltiplica la rabbia della gente, che scende spontaneamente in marcia avviandosi verso la residenza presidenziale della Casa Rosada al ritmo di posate battute sulle pentole utilizzate come tamburi: nascono così i famosi “cacerolazos” che scandiscono il ritmo degli avvenimenti, tra assalti nei supermercati e incidenti di piazza con cariche della cavalleria che provocano trenta morti, fatto che in pratica costringe De la Rua a dimettersi il 21 dicembre e a fuggire in elicottero.
Inizia a svilupparsi una situazione paradossale, che vede l’alternarsi di cinque presidenti nell’arco di una settimana. Il 2 gennaio 2002 viene nominato il peronista Eduardo Duhalde, da molti indicato come l’organizzatore dei tafferugli di piazza. Il suo compito è quello di trascinare il Paese fino alle elezioni che si terranno nel 2003 e lo fa prendendo le decisioni più dolorose che riguardano l’immediata svalutazione del peso del 243%. Fatto che provoca un taglio ai salari e alle pensioni che porta molta gente verso l’indigenza, ma anche la svalutazione degli immensi debiti di varie imprese private, fatto che porta al fallimento di diverse banche. La gente assalta gli istituti di credito pretendendo i propri soldi, ma il Presidente stesso annuncia, in un suo storico discorso che “chi ha depositi in dollari riceverà dollari”, riuscendo a calmare le acque ma continuando in una tradizione di bugie che avrà nel kirchnerismo il suo campione.
L’economia, a quelle condizioni, ricomincia a decollare anche perché lo Stato cerca di intervenire per risolvere la situazione rifiutandosi di pagare il debito con le banche internazionali. Contemporaneamente si sviluppa quello che rappresenta ancora uno dei cancri dell’economia argentina: il lavoro nero che tutt’oggi registra nella sola Buenos Aires oltre 3.000 laboratori clandestini.
Un altro passo fondamentale per la rinascita del Paese viene compiuto dal mercato agricolo, dove la soia, elemento primario delle esportazioni, passa da 125 a 300 dollari la tonnellata (arriverà a 500), costituendo un capitale immenso per poter portare il Paese a una situazione di prosperità. Ma arrivano le lezioni del 2003 dove Nestor Kirchner vince con appena il 20% dei voti. Si trova a governare una nazione in pieno decollo economico e nel giro di un decennio sia lui che la moglie Cristina costruiranno, tra le tante favole, quella dei salvatori della Patria, avendo “ereditato un Paese distrutto e fatto risorgere” come dichiara continuamente Cristina.
E così due tra i più fervidi alleati del Governo menemista continuano la sua tradizione: inventarsi un’altra favola (questa volta populista) per poi allontanarsi quando i cocci sono rotti e far gravare su un altro Governo il peso delle crisi per poi ritornare al potere. Almeno fino a quando ci sarà un popolo disposto a credere e a subirne le conseguenze.