Villa Ambiveri a Seriate, la sede storica di Russia Cristiana, una novantina di persone venute per incontrarsi da Russia, Ucraina, Bielorussia e Georgia (oltre ovviamente che dall’Italia). L’idea era venuta al poeta bielorusso Dima Strocev ed era stata subito condivisa da Aleksandr Filonenko, filosofo di Charkov e autore, con Dima e altri, della mostra sul Metropolita Antonij Surozhskij che viene presentata in questa edizione del Meeting di Rimini. Volevano andare ancora più a fondo nella ricerca delle origini di questa mostra, nella riscoperta del perché sia tanto importante questa figura oggi. E volevano che questo diventasse chiaro ai giovani e meno giovani, cattolici e ortodossi, che saranno le guide di questa mostra, che animeranno gli incontri di contorno (oltre a Strocev e Filonenko, ci sarà fra gli altri anche l’editore e filosofo ucraino Konstantin Sigov) e che in diverse maniere parteciperanno al lavoro del Meeting.



«Lavorando per la mostra — diceva Filonenko — mi sono reso conto della profonda sintonia esistente tra l’esperienza del Metropolita e di don Giussani; questa sintonia è uno di temi della mostra, giustificata dalla comune percezione della presenza di Cristo oggi, come forza di trasfigurazione e di liberazione del mondo e dell’uomo contemporaneo. Ma poi mi sono reso conto che c’erano anche altri motivi, alcuni casuali, altri più profondi che mi hanno portato qui a Russia Cristiana, per ascoltare padre Scalfi: lui e Antonij erano stati ordinati nello stesso anno, il 1948, e sempre nello stesso anno, il 1960, avevano fatto il loro primo viaggio in Russia. Valeva la pena di andare più a fondo di questa apparente casualità, che rimetteva però in primo piano una passione comune per Cristo e per la Russia Cristiana». E così, appunto è nato l’incontro dell’altro ieri.



Padre Romano Scalfi ha cominciato a raccontare la storia della sua passione per la Russia; era la passione per la liberazione dell’uomo, per la testimonianza della possibilità di vivere la fede anche nelle condizioni della persecuzione più dura. «Mai contro qualcuno o qualcosa — ha ripetuto più volte padre Romano — ma sempre sorpresi e rianimati dalla forza della fede e dalla sua capacità di far rinascere una speranza, allora di fonte al comunismo, come oggi di fronte a tante nuove prove. Mai con la pretesa di convincere, convertire o conquistare qualcuno, ma sempre con la coscienza che ciascuno di noi doveva andare in fondo alla propria fede: noi cattolici dovevamo essere sempre più radicalmente cattolici, e gli ortodossi dovevano esser sempre più radicalmente ortodossi, e le nostre diversità sarebbero state, in Cristo, un comune arricchimento».



Andrej, uno dei giovani bielorussi presenti all’incontro, a questo punto, ha commentato, dicendo che allora era evidente il perché di tanta sintonia tra Antonij e don Giussani: «Tutti e due avevano un amico comune: padre Romano».

Osservazione apparentemente scherzosa, che in realtà stava per aprire una serietà inattesa: «Non è la prima volta che veniamo al Meeting — ha continuato Andrej, parlando della propria famiglia —. Tutte le volte che veniamo mia madre dice che la vive come fosse l’ultima; ma non lo dice con un tono di tristezza, anzi. Adesso capisco che è perché lì, come nel Metropolita, in don Giussani o in quello che ha detto padre Romano, si ha una sorta di anticipazione dell’eternità: non è che dopo tutto può finire e che si resterebbe con mille occasioni perdute, con una vita mancata, è che hai già gustato un anticipo del tutto. È l’ultima volta perché, qualsiasi cosa succeda dopo, quello che è avvenuto non te lo può più togliere niente e nessuno, e si può continuare a vivere con speranza, perché hai incontrato la vita. E quanto è importante questo per noi oggi, perché io so, noi tutti sappiamo che c’è la guerra, non lontano, ma a casa nostra, in Ucraina, come in Russia e in Bielorussia».

Mi diceva poi Aleksandr Filonenko: «Poco più di vent’anni, non da una situazione comoda o tranquilla ma dal cuore delle inimicizie, un ragazzo ci è venuto a ricordare quello che è stato il cuore dell’esperienza di Antonij e dei cristiani, da sempre: siamo liberi, perché siamo stati liberati; non siamo liberi perché siamo più forti, più intelligenti, più potenti, o più grandi di altri, ma perché la liberazione ci è stata data, come diceva il Metropolita Antonij, da qualcuno che come noi era “indifeso, vulnerabile, debole, impotente, disprezzato dagli uomini che credono solo nella vittoria della forza”. E quell’uomo è risorto da morte. È un bell’inizio anche per noi oggi. Davvero anche se fosse l’ultimo: nessuno ce lo può togliere».

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