E’ per una “mancanza” del cuore che si parte, dice monsignor Silvano Maria Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede per le Nazioni Unite a Ginevra, oggi ospite al Meeting di Rimini, perché “al di là di ogni sofferenza si è convinti che si può trovare la risposta che il cuore desidera”. Il suo punto di vista su migranti, Onu, Italia, Libia e Medio oriente.



Monsignor Tomasi, il card. Bagnasco ha usato parole molte nette verso l’Onu, criticando la sua inerzia verso la tragedia dei migranti nel Mediterraneo. Ha ragione o ha torto?
Siamo di fronte ad una crisi umanitaria che ogni anno coinvolge nel mondo quasi 60 milioni di sfollati e 240 milioni di migranti internazionali. Parliamo di una persona su sette al mondo che è costretta ad abbandonare tutto spinta dalla disperazione e con la consapevolezza che suo può essere l’ultimo viaggio. Di fronte ad uno scenario che si sta profilando di perenne emergenza gli organismi internazionali si dimostrano di fatto incapaci a dare un nuovo indirizzo politico nella gestione del fenomeno. 



Perché questo scacco?
Le Nazioni Unite e le organizzazioni attraverso cui operano sono condizionate dagli Stati membri e quindi limitate nella loro azione. Le strutture internazionali, così come le normative a livello internazionale, esistono ormai da lungo tempo, quello che manca è la volontà politica, una mancanza di quella globalizzazione della solidarietà di cui parla Papa Francesco. 

Cosa bisogna fare?
“Il primo passo” da compiere è l’applicazione coerente delle regole già concordate, il rispetto degli strumenti di protezione in vigore per i richiedenti asilo e i rifugiati. Per esempio, per i migranti, sarebbe la ratifica delle Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e, anche per i paesi ricchi, della Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Lavoratori Migranti e delle loro Famiglie approvata dalle Nazioni Unite nel 1990 e ora in vigore. Occorrono, soprattutto, canali legali per l’arrivo di rifugiati e migranti, per non fare del Mediterraneo un cimitero. Si aggiunga che queste persone sono indispensabili per l’economia dell’Unione Europea.



Cosa pensa di quanto sta facendo l’Italia verso i migranti e i profughi nel Mediterraneo?
L’operazione Mare Nostrum ha mostrato la tradizione umanitaria italiana. Al di là delle polemiche, la realtà di parrocchie, comunità religiose locali, comuni che accolgono queste vittime di guerre di cui non sono responsabili e di persecuzioni che sembrano tollerate dalla Comunità internazionale, ci dice che il cuore va più avanti della politica. Ma l’emergenza è grande e dovrebbero essere coinvolti nella sua gestione anche coloro che hanno destabilizzato il Medio Oriente. 

Eppure, il continuo flusso di arrivi preoccupa molto gli italiani.
Certo, la crisi è reale e sentita dalla popolazione e non ci si può nascondere dietro un buonismo astratto. La generosità esiste, spesso ispirata da carità cristiana, ma si dovrebbe rispondere all’emergenza in maniera collettiva e guardando alle conseguenze per il futuro.

Come giudica su questo punto la condotta europea? 

Sta progressivamente crescendo l’accettazione politica della necessità di una risposta comune ai movimenti attuali di popolazione. L’Unione Europea, che nel suo individualismo si confronta con un deficit demografico in vari dei suoi membri, può beneficiare dall’arrivo di questi richiedenti asilo. Certo si dovrà tener conto che ci sono dei limiti alla capacità di accoglienza, per cui bisogna operare efficacemente nei paesi di origine di questi flussi migratori. Si dovrà lavorare anzitutto per la pace e per lo sviluppo integrale dei Paesi di origine. Mi pare poi che nell’emozione del momento si perda di vista un obiettivo più importante quale quello dell’integrazione.

Integrazione a qualsiasi condizioni?
Mi pare legittimo considerare la preservazione dell’identità democratica e culturale e dei valori cristiani dell’Europa come un diritto non negoziabile. Perciò il dibattito sui numeri e le strutture è importante, ma lo è ancor di più quello sui valori.

Che cosa dovrebbe fare secondo lei l’Italia per la Libia? Lei auspica o no un intervento internazionale sotto l’egida Onu e a quali condizioni?
Il problema degli Stati disintegrati, “failed States”, non riguarda solo la Libia, ma anche la Somalia, la dittatura Eritrea, la Siria ed altri Paesi. Nel caos e nella violenza che ne segue la popolazione cerca scampo in tutti i modi possibili. E’ il diritto alla sopravvivenza. L’intervento armato in questi casi rischia di complicare ulteriormente e la via del dialogo rimane il metodo preferibile. In casi estremi, quando tutte le altre opzioni sono esaurite, scatta il dovere di proteggere che la Comunità internazionale si deve assumere secondo le regole e gli organismi che si è data. Prevenire la disintegrazione di Stati potrebbe essere un servizio efficace delle Nazioni Unite.

C’è però la sensazione che l’Onu sia poco o nulla senza alcuni paesi politicamente decisivi.
La governance dei movimenti di popolazione è un’esigenza globale che gli Stati membri delle Nazioni Unite sentono e trattano. Non si può negare che milioni di rifugiati, sfollati e di migranti sono stati aiutati dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dall’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni. Ma come abbiamo un organismo con valenza obbligatoria per il commercio, la Wto, forse si può pensare di arrivare a una struttura simile per la gestione dei movimenti di popolazione. Su questa strada si può costruire una risposta coordinata alle emergenze, ma una scelta simile richiede un senso di solidarietà concreto che limita in parte anche la sovranità nazionale per abbracciare il bene comune.

Una sua valutazione della Lega araba come interlocutore politico. Il governo di Tobruk vede con favore un suo intervento militare…
Davanti alle incertezze e all’inefficacia delle Nazioni Unite emergono e si stanno rafforzando strutture regionali per rispondere con più immediatezza e prontezza ai problemi che sorgono nel loro territorio. Da questo punto di vista, un’azione della Lega Araba potrebbe rivelarsi più efficace, sempre assumendo che le condizioni per il dovere di proteggere siano rispettate. 

Più efficace perché? 

L’intervento da parte di una struttura che ha delle affinità culturali, religiose e tradizionali comuni, può essere più efficace e creare meno conseguenze dannose, come potrebbe essere il caso se solo Paesi occidentali intraprendessero azioni militari, che verrebbero viste come una invasione e non un’operazione di pace.

Dopo l’accordo Usa-Iran cosa sta cambiando in Medio oriente? Secondo lei si va verso una spartizione “balcanica” della Siria?
L’importanza dell’accordo Usa-Iran sta nel fatto che un interlocutore fondamentale nel Medio Oriente è ritornato nel contesto internazionale e quindi può contribuire al negoziato per la fine della violenza nella regione. L’assestamento politico e militare nel Medio Oriente è legato al nuovo fenomeno di gruppi non statali che sono strumentalizzati da poteri esterni per promuovere obiettivi politici o di altro genere. Ma la spartizione della Siria sarebbe un messaggio sbagliato che bloccherebbe la complessa evoluzione dei Paesi a maggioranza islamica.

Quale sarebbe la strada da intraprendere?
Una soluzione ragionevole alla crisi in Siria è di affermare e mettere in pratica il principio di cittadinanza, per cui una persona ha uguali doveri e diritti di fronte allo Stato ed è quindi libera di associarsi con chi crede meglio. La crudeltà dell’Isis rimane l’evidenza più chiara di dove possa portare il fanatismo ispirato esclusivamente da un riferimento ad una religione o ad una identità etnica. Si sta tentando di riprendere il negoziato in Siria cercando di coinvolgere tutte le parti in causa, ma questo negoziato porterà frutto se gli sponsor dei vari gruppi, le grandi potenze, si metteranno d’accordo. 

Intanto continuano le sanzioni.
Le sanzioni imposte alla Siria aumentano la sofferenza della popolazione e appaiono strategicamente inutili. Trovare una soluzione al presente conflitto è certamente negli interessi immediati dell’Europa, per esempio, dato che nel 2015 il 33% dei richiedenti asilo nell’Ue proviene dalla Siria.

Il titolo del Meeting è “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno”? Cosa ha a che fare questo verso di Mario Luzi con il dramma che è sotto i nostri occhi?
Alla radice della decisione di partire c’è l’aspirazione profonda ad una vita normale, dove i sentimenti di ogni giorno, la famiglia, il senso della creatività attraverso il lavoro, trovano il loro spazio. E’ in questa prospettiva che la speranza rimane viva e che fa intraprendere viaggi rischiosi, perché al di là di ogni sofferenza si è convinti che si può trovare la risposta che il cuore desidera. Lo sradicamento e l’esperienza dell’emigrazione forzata dalle guerre o dall’estrema povertà diventano un luogo teologico dove il senso del cammino diviene quello della vita alla ricerca di colmare la mancanza che esistenzialmente si intuisce e si esperimenta. Già Sant’Agostino sentiva nel suo profondo che le varie strade di ricerca concludono l’inquietudine del cuore solo quando si ritrovano.

(Federico Ferraù)

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