Il padre e la madre non si scelgono. Possono essere santi, come i coniugi Martin, i genitori di Teresa di Lisieux, che hanno accompagnato le loro figlie verso il convento e gli altari. Possono essere dei delinquenti, come Martina Levato, che ora trepida sperando che il tribunale non dia il suo piccolo in adozione.
Possono essere brava gente che si ammazza di fatica in lavori umili perché i figli possano studiare, e piangono di soddisfazione a vedere il figlio laureato; e possono essere brava gente che si ammazza di fatica in lavori di successo perché i figli possano avere una vita più agiata della loro, e piangono di dolore quando seppelliscono il figlio ammazzato dalla droga. Possono essere padri che scompaiono e lasciano a madri eroiche il fardello di tirar su i figli da sole, e possono essere povere madri disperate che lasciano il figlio alla ruota del convento perché proprio non saprebbero come fare.
Possono essere padri e madri a cui i figli non vanno mai bene, qualunque cosa facciano un rimprovero, una paternale, un ghigno di disapprovazione, con l’animo tranquillo di chi è convinto che sta facendo del bene, li sta tirando su “come si deve”.
Possono essere madri e padri a cui i figli vanno bene sempre, “è la loro libertà”, basta che non diano fastidio, se ne stiano buoni coi loro gingilli elettronici e li lascino vivere in pace. Madri che chiedono ai figli quel successo che a loro è stato negato, come ne Il cigno nero di Aronofsky, e padri che sfidano tutto per dare al figlio una speranza, come il Will Smith de La ricerca della felicità. Possono essere, grazie a Dio anche spesso, “un genitore accettabile”, secondo il titolo del bellissimo libro di Bruno Bettelheim, che semplicemente cercano, senza nascondere i propri limiti, di mostrare ai figli che la vita è bella, e vale la pena di essere vissuta fino in fondo (in realtà, A good enough parent, “Un genitore abbastanza buono” — passabile, potremmo dire, discreto — è il titolo inglese, l’edizione italiana si chiama Un genitore quasi perfetto, che travisa di molto l’intenzione dell’autore e il contenuto del libro).
L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Fino a comprendere una madre che parte da Londra con i suoi figli per portarli a combattere in Siria sotto le bandiere dell’Isis — se davvero è così, se davvero Zahera Tariq, che è scomparsa da casa senza dir nulla e le foto mostrano all’aeroporto mentre si imbarca per Amsterdam, ha proseguito il suo viaggio verso il califfato; ma a parte lei sono ormai molte le famiglie che lasciano l’Occidente corrotto per arruolarsi sotto le insegne della riscossa islamica.
C’è un destino, nella maternità e nella paternità, è il primo segno e forse il più clamoroso che non ci facciamo da noi, che originariamente dipendiamo. Un tribunale può decidere, è giusto, che un padre o una madre non sono in grado di allevare un figlio, decidere di toglierglielo, di affidarlo a un altro padre e a un’altra madre si spera migliori; ma sempre umani, sempre con la grandezza e i limite di tutti noi umani. Inevitabilmente, un padre e una madre sono dati, e noi dipendiamo.
E allora? Allora che dire, davanti alle immagini di Zahera che porta i figli — se davvero è così, ma se non è Zahira ci sono altre come lei, chissà quante di cui non sapremo mai il nome — verso un destino che, lei è certa, è il migliore per loro? Niente, se non una cosa. Che per sapere che cosa sono davvero un padre e una madre abbiamo una sola possibilità, guardare il Padre e la Madre, la paternità di Dio e la maternità di Maria. Chiedere che ci siano nel mondo tanti padri e tante madri che guardano lì, e possano tirar su i figli come Dio e la Madonna tirano su noi.