Putin ha perso la pazienza, ha convocato l’ambasciatore turco e ha sbraitato che se il dittatore Erdogan non la smette di aiutare Isis e altre combriccole terroriste, trasformerà la Siria in una “grande Stalingrado” per respingere il nuovo Hitler. La notizia choc è riportata da un sito di Dubai che fa riferimento a voci provenienti da Moscow Times, ma non ha avuto molta eco e giustamente, anche se più che una bufala sembra un nuovo passaggio nella guerra mediatica in corso.
Il presunto scoop è uscito in concomitanza con una dichiarazione, questa autentica, del presidente turco Erdogan che, facendo riferimento a suoi colloqui diretti con Putin, afferma un cambio di strategia da parte della Russia nei confronti di Assad. Putin sarebbe ora disposto a un cambio di regime, accettando la cacciata di Assad, cosa di completo gradimento di Ankara.
Parlando con i giornalisti durante il suo viaggio in Indonesia, Erdogan ha anche ventilato l’estensione dell’intesa operativa con gli Stati Uniti contro l’Isis ad Arabia Saudita, Qatar, Francia e Regno Unito. Qualche giorno fa il ministro degli Esteri russo, in un incontro nel Qatar con i colleghi americano e saudita, aveva anch’egli parlato di una possibile coalizione in cui includere curdi ed esercito governativo siriano. E’ evidente l’inconciliabilità dei due piani e, infatti, lo stesso Lavrov ha ammesso di non essere riuscito a scalfire la posizione degli Usa.
In questo scenario si situa la già citata guerra mediatica che si inserisce nel tentativo di ciascuna delle parti di trarre il maggiore vantaggio prima della conclusione finale. La soluzione che si sta delineando sembra sempre più lontana da un progetto di transizione dall’attuale regime a un nuovo assetto, con o senza Assad, e che avrebbe dovuto comunque assicurare la coesistenza pacifica della minoranza alawita con la maggioranza sunnita.
Una situazione che ricorda quella dell’Iraq, sia per il tentativo della Russia anche allora di una sostituzione concordata di Saddam Hussein e il cui fallimento portò all’invasione americana, sia per la situazione venutasi a creare dopo la caduta del regime. La maggioranza sciita, fino ad allora oppressa, andata al governo si prese la rivincita sulla minoranza sunnita che governava con Saddam, spingendo così molte tribù sunnite ad appoggiare l’Isis. La stessa situazione, a ruoli rovesciati, rischia di riprodursi in Siria una volta caduto l’attuale regime sostenuto da alawiti e da altre minoranze.
La soluzione che si prospetta più probabile è quindi una spartizione del territorio in aree di influenza e questa sembra anche l’ipotesi sottostante alla strategia militare del governo di Damasco. Nonostante le aspettative di Obama su una sua rapida caduta, Bashar al Assad è ancora in sella, pur molto indebolito e costretto sulla difensiva, ma deciso a conservare le regioni della Siria occidentale in cui ha ancora sostegno. Questo è anche l’interesse della Russia, che in quell’area ha la sua base navale, e dell’Iran, dato che si costituirebbe un ‘area sciita con Hezbollah nel confinante Libano.
Anche Russia e Turchia hanno tutto l’interesse a raggiungere un accordo di compromesso per risolvere la questione siriana, anche per i loro rilevanti rapporti economici soprattutto nel settore energetico. Rimane aperta la questione curda, su cui le posizioni di Mosca e Ankara divergono, che potrebbe però avere una risposta con la soluzione dell’altro problema dell’area, quello iracheno. Anche per l’Iraq è prevedibile un compromesso che, se non a una spartizione, porti a una struttura federale tra sud sciita, centro sunnita e nord curdo. Le divisioni territoriali non sono così nette, ma la cosa non è impossibile con un accordo tra Turchia e Iran.
Rimane da superare l’ostinazione di Obama a voler comunque cacciare Assad, ma la sua insistenza potrebbe mettere a repentaglio l’accordo con Teheran sul nucleare, contro il quale sta affilando le armi l’opposizione Repubblicana, e né Obama né il suo partito possono permettersi un tale smacco.
Oltre tutto, la politica di Obama di armare le opposizioni contro il regime siriano ha portato al sopravvento degli estremisti, califfato e gruppi legati ad al Qaeda e ai salafiti, sulle fazioni più moderate o laiche. Senza le milizie sciite irachene sostenute dall’Iran, i curdi, l’esercito turco e il deprecato esercito governativo, gli estremisti non potranno essere sconfitti. Tanto meno da un improbabile intervento dei marines americani.
Rimane da vedere chi c’è dietro la notizia dell’intemerata di Putin all’ambasciatore turco, cioè a chi farebbe comodo una rottura tra Mosca e Ankara. Esclusa l’ipotesi che il Nobel per la Pace si sia trasformato in un falco guerrafondaio, una simile rottura servirebbe senza dubbio al califfato, ma forse anche in quel di Riyad la cosa potrebbe non dispiacere. In fondo, i sauditi sono quelli che al momento sembrano più fuori dai giochi.