Gli Stati Uniti d’America hanno ripreso per i capelli il difficile rapporto con la Turchia. Una Turchia segnata dalle ambiguità del rapporto con l’Isis, dalle difficoltà interne di Erdogan, dal problema curdo. Soprattutto una Turchia apparentemente senza ruolo dopo che il tentativo di Obama di ricostruire relazioni con l’Iran ha gettato nel caos lo scacchiere mediorientale. Non solo Israele trova rischiosa la strategia del presidente americano, ma anche i sauditi reputano ormai compromesso il proprio rapporto con Washington, i cui analisti peraltro attribuiscono proprio all’ostinazione di Riyad molti degli errori compiuti da differenti amministrazioni statunitensi nell’area.

L’area è il Medio oriente appunto. La Siria, dove si sta combattendo una sorta di guerra di Spagna in cui Arabia Saudita, Iran, Turchia, Quatar recitano il ruolo che portò le potenze europee al conflitto mondiale. L’Iraq, col suo dolore e una guerra civile che durerà decenni. L’Egitto di Al Sisi, che intende contribuire a nuovi equilibri proprio facendo sponda su Usa e Israele.

Obama prova a trovare il bandolo della matassa accettando non solo l’accordo con l’Iran, ma dicendosi pronto anche a riconsiderare il ruolo di una Russia con cui certo non ha un buon feeling. Schierare allora i caccia a fianco di Ankara vuol dire difendere l’accordo con l’Iran, o meglio, ricercare un equilibrio. Per sostenere l’accordo sul nucleare iraniano Barack Obama parla di pace, ma non esita ad evocare la guerra: “Cerchiamo di non usare mezzi termini, la scelta è tra la diplomazia o qualche forma di guerra”. E ancora: “Molti di coloro che parlavano a favore della guerra in Iraq ora spingono contro l’accordo sul nucleare con l’Iran”. E quindi l’affondo: un “rifiuto del Congresso dell’accordo lascia una opzione: un’altra guerra in Medio oriente. Forse non domani, forse non tra tre mesi, ma presto”.

Parole forti, usate per ammonire il Congresso. E per farlo Obama sceglie anche una platea simbolica, l’American University, la stessa dove nel 1963, appena pochi mesi dopo la drammatica crisi dei missili a Cuba, il presidente John Fitzgerald Kennedy pronunciò uno storico discorso per proporre un accodo all’Unione Sovietica sul controllo delle armi. Proprio citando quel discorso, Obama ha sostanzialmente dato l’avvio a un’offensiva politica per convincere i repubblicani, ma anche diversi democratici, a non cancellare il lavoro fatto in due anni che, ha sottolineato, raggiunge “il nostro più critico obiettivo di sicurezza”. “Qualsiasi guadagno l’Iran può ottenere dall’allentamento delle sanzioni – ha detto – impallidisce in confronto al pericolo che potrebbe rappresentare se avesse l’arma atomica”.

Certo, ha concesso, l’accordo non risolve tutti i problemi con Teheran e “nessuno può biasimare Israele per essere profondamente scettico su qualsiasi accordo con un governo come quello dell’Iran”, quindi è naturale che il premier israeliano Netanyahu sia fortemente contrario. 

Ma intanto il premier Netanyahu continua la sua battaglia a tutto campo contro l’accordo. E può contare su un congresso americano dove i repubblicani sono ostaggio delle primarie più affollate della loro storia, quasi venti candidati, e gli stessi democratici che di candidato ne hanno uno solo, Hillary Clinton, devono comunque molto alla lobby ebraica.

In una contromossa Obama a sua volta ha avuto un incontro privato alla Casa Bianca con diversi leader della comunità ebraica, ai quali ha fatto peraltro notare che l’Aipac, la più potente lobby ebraica Usa, ha avviato una campagna da 20 milioni di dollari, con numerosi spot tv, per influenzare l’opinione pubblica contro l’accordo. Alcuni dei gruppi che hanno partecipato all’incontro sono favorevoli all’accordo, altri contrari. E mentre la battaglia politica va avanti su vari campi, i leader repubblicani hanno già detto che voteranno contro l’accordo. E se il presidente porrà il veto, come ha minacciato, cercheranno una maggioranza qualificata per superarlo. Non è detto che ce la facciano, ma hanno tempo per manovrare. Secondo le previsioni, il voto in Congresso avverrà verso la fine di settembre, e secondo la Casa Bianca sarà il più importante da quando è stata decisa la guerra in Iraq.

Obama è solo nel portare avanti una strategia così complessa. Il partito democratico non è più il suo partito ma quello di Hilary che è impegnata in una corsa senza esclusione di colpi per la Casa Bianca. Ma è il commander in chief. E se c’è un luogo dove questo conta più dei giochi della politica, quel luogo è il paese di Lincoln, Roosevelt e Kennedy.