Mai come in questi giorni il “dimenticato” fronte siriano, che oramai da più di 4 anni con buona pace dei “grandi della terra” è teatro di una vera e propria carneficina, sembra divenuto lo scacchiere su cui si giocherà il braccio di ferro delle grandi potenze internazionali.
Pochi giorni fa Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, ha annunciato che Mosca sta inviando armi a Damasco «contro la minaccia terroristica che ha raggiunto una dimensione senza precedenti in Siria e nel vicino Iraq» e notizie ancor più recenti, da agenzie libanesi e saudite, parlano di forze russe sbarcate a Latakia assieme ad armi leggere, lanciagranateemezzi blindati di ultima generazione BTR-82A, per dare il via alle prime operazioni militari in Siria, a supporto del regime damasceno.
Nulla di cui stupirsi. D’altra parte, la “vecchia amicizia” tra Putin e Assad, che spesso aveva accolto nel “club” anche l’allora impresentabile Iran di Ahmadinejad, non è certo un segreto. A maggiore ragione oggi che l’Iran è stato riammesso nel novero degli attori internazionali riconosciuti, dopo l’apertura della trattativa sul nucleare dello scorso luglio — peraltro fortemente voluta da Washington — la Russia può giocare a carte scoperte e riaprire la sua special relationship con Teheran, magari passando proprio sulla via di Damasco. In questi termini, il sostegno russo ad Assad può essere letto anche nella più ampia strategia del rafforzamento della prospettiva bilaterale con Teheran, attore nevralgico sia nella questione siriana sia, in più ampia analisi, nell’attuale risiko strategico mediorientale.
La revoca delle sanzioni, che nel 2007 avevano tra le altre cose costretto il Cremlino ad annullare il contratto da 800 milioni di dollari per la fornitura di diverse batterie di S-300 all’Iran, permette oggi alla Russia di percorre la via principale per raggiungere la potenza iraniana senza dover più inerpicarsi su tortuose “vie secondarie” e di inviare sistemi missilistici antiaerei a Teheran senza nessuna possibilità di contraddittorio da parte della comunità internazionale, ma di certo con qualche mal di pancia, soprattutto sul fronte americano. Detta in altri termini, ora che l’Iran non è più lo “Stato canaglia” esecrato da Washington, la Repubblica islamica può tornare a ricoprire un posto di primo piano nella concezione multipolare putiniana dei rapporti internazionali.
Manna dal cielo per il Cremlino, dunque, e non solo per assicurare la stabilità della regione centroasiatica, ma anche e soprattutto per ragioni di natura economica. La Russia, infatti, ha concluso dai primi anni duemila contratti miliardari per la vendita di armamenti all’Iran. Con Gazprom partecipa a importanti progetti gas-petroliferi iraniani e, non da ultimo, fornisce macchinari e impianti per lo sfruttamento degli idrocarburi iraniani. Tanto basta per comprendere il ruolo “pivotale” dell’Iran nel più ampio prisma comparativo della strategia russa nel quadrante caucasico-mediorientale e tanto basta anche per capire come questo sia davvero un boccone amaro per Obama, soprattutto se collochiamo la questione nello spinoso scenario siriano.
Se da un lato, infatti, l’asse Mosca-Washington sembra convergere sulla necessità di sconfiggere il califfato, dall’altra sembra invece incrinarsi in maniera irreversibile sul ruolo futuro di Assad che gli Stati Uniti vorrebbero, nella migliore delle ipotesi, fuori dal paese. A ben guardare, però, sarebbe riduttivo valutare la posizione americana sulla questione siriana senza inquadrarla nel più ampio spettro prospettico della politica mediorientale di Washington ed in particolare nella dipendenza economica che innegabilmente lega gli Stati Uniti, così come molti Stati europei, alle ricche monarchie del Golfo, Arabia Saudita in primis.
Non sono certo un segreto gli ingenti investimenti sauditi, o di altri paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, negli Stati Uniti ed in molti partner europei, così come non sono un segreto le ingenti esportazioni europee e americane di armi verso Ryad. Ora, è evidente come qualunque decisione politica americana sia fortemente condizionata da interessi economici, e questi al momento convergono verso i paesi sunniti del Golfo che, dopo aver chiuso un occhio (ma chissà a quali condizioni) sulla riabilitazione dello storico nemico sciita iraniano, chiedono a gran voce l’eliminazione del regime alawita di Assad, forse anche a costo di sacrificare quel che resta della Siria sull’altare dell’Isis.
Insomma volendo semplificare una realtà complessa, potremmo dire che al momento il Medio Oriente è diviso tra due grandi player regionali: l’Iran, baluardo sciita, e l’Arabia Saudita, indiscusso leader della galassia sunnita. Entrambi ambiscono ad assurgere al ruolo di potenza regionale del Golfo Persico ed entrambi, su posizioni nettamente divergenti, sono invischiati nel conflitto in Siria — nonché in altri teatri di guerra, dal Bahrein allo Yemen, considerati “minori” ma solo perché totalmente al di fuori dell’interesse politico e mediatico dell’occidente — le cui evoluzioni potrebbero far pendere l’ago della bilancia di questo “gioco di potenze”. Stati Uniti e Russia entrano in questo frammentato risiko come attori co-protagonisti, al fianco dell’uno e dell’altro “contendente”, spinti dai rispettivi interessi economici — in parte sopra accennati — ed agendo, soprattutto da parte americana, con la “solita” realpolitik del leading from behind (letteralmente “gestire gli eventi da dietro”) armando e finanziando di volta in volta gli attori che sembrano più utili per il raggiungimento dei propri obiettivi geostrategici, siano essi dittatori o “petrol-monarchi”.
Osservando le cose da questa prospettiva, è quantomeno triste notare come la Siria con i sui morti, con le sue macerie, con le sue ferite e con i suoi scempi, appaia quasi come una questione marginale, mentre i “suoi” profughi che muoiono in migliaia sulle nostre coste, diventano dei semplici “danni collaterali”.