Il Medio Oriente si presenta sempre più come il “buco nero” della politica estera degli Stati Uniti e anche la presidenza di Obama, così diversa sulla carta da quella di Bush, non è riuscita a risolvere nessuno dei problemi lasciati dalla precedente amministrazione, anzi, li ha in buona parte aggravati.

Il vecchio sistema di alleanze nella regione, formalmente ancora in vita, è di fatto soggetto a vistose crepe e conflitti. I rapporti con Israele sono sempre più freddi e sono giunti a uno scontro diretto con l’apertura di Obama all’Iran sulla questione nucleare, contestata anche da buona parte dell’opposizione interna repubblicana. Il che non potrà non avere effetti anche sulla prossima campagna per le elezioni presidenziali, data la notevole influenza della comunità ebraica negli Stati Uniti, pur divisa nei confronti del governo di destra di Netanyahu. Malgrado la crescente importanza che l’Egitto sta assumendo nella lotta contro l’estremismo islamico, l’appoggio di Obama ai Fratelli musulmani non facilita le relazioni con il governo militare di al-Sisi.



Anche con l’Arabia Saudita la situazione è molto tesa, sia per la questione iraniana, sia per la guerra sul prezzo del petrolio scatenata dai sauditi proprio per bloccare il petrolio di scisto americano. Sembra quindi difficile continuare la cinica alleanza del passato, che spingeva Usa ed Europa a chiudere entrambi gli occhi sulla completa assenza di libertà, in particolare religiosa, in Arabia e sui costanti e sostanziosi finanziamenti dei sauditi a molti movimenti islamici estremisti.



La laica e autoritaria Turchia fondata dai Giovani Turchi è stata a lungo il bastione orientale della Nato, ma la situazione è cambiata con l’avvento al potere del partito islamico di Erdogan. La nuova Turchia, cui vengono attribuite aspirazioni neo-ottomane, ha rotto i consolidati rapporti con Israele e ha tolto il sostegno ad Assad, di cui Erdogan è diventato il maggiore avversario insieme a Obama. Malgrado il comune nemico, Erdogan si è dimostrato un alleato molto più tiepido, tenendo un atteggiamento piuttosto cauto, se non ambiguo, nei confronti dell’Isis. Anche la recente decisione di intervenire con raid aerei contro lo stato islamico si è risolta, almeno per il momento, in un attacco ai curdi del Pkk, riaprendo così la questione curda non solo in Turchia, ma anche in Siria e in Iraq.



Proprio Siria e Iraq sono i punti su cui la politica estera di Obama viene più criticata anche negli Stati Uniti, come indicano le crescenti polemiche sugli scarsi risultati del programma di addestramento di combattenti siriani moderati. Un primo gruppo di questi combattenti, 54 uomini, è stato annientato in luglio dal al-Nusra, il gruppo estremista affiliato ad al-Qaeda. 

Nonostante siano stati spesi circa 3,5 miliardi di dollari, siano stati effettuati più di 6000 raid aerei e 3500 militari americani siano presenti in Iraq, il 75 per cento del territorio riconquistato all’Isis è ad opera dei combattenti curdi. Ai quali i rifornimenti di armi americane non arrivano direttamente, ma attraverso il governo centrale di Baghdad, che non vede di buon occhio la sostanziale indipendenza dei curdi, nel frattempo attaccati anche dalla Turchia. 

Ulteriore incertezza sul reale esito delle operazioni contro l’Isis viene da una denuncia di diversi operatori della Defense Intelligence Agency (Dia), l’agenzia di intelligence della Difesa statunitense, su cui sono state aperte inchieste sia del Pentagono che dei competenti comitati del Congresso. Secondo la denuncia, i rapporti di intelligence su Isis e al-Nusra sono stati edulcorati, descrivendo questi gruppi come più deboli per allinearli alle posizioni ufficiali del governo sui successi della lotta contro gli estremisti. Inevitabile il parallelo con le false informazioni dell’intelligence a Bush, che furono alla base della guerra in Iraq. Il generale Vincent Stewart, direttore della Dia, ha negato le manipolazioni, sottolineando che i dati delle analisi non sempre sono oggettivi e devono essere interpretati. Lo stesso generale ha dichiarato di ritenere difficile mantenere Iraq e Siria come Stati unitari, affermazione che ha destato qualche sorpresa, essendo l’opposto della linea finora sostenuta da Obama. 

La politica in Medio Oriente della Russia sembra più lineare e, in parte, continuazione dei rapporti esistenti ai tempi dell’Unione Sovietica, come dimostra il fatto che i curdi e le truppe di Assad combattono con armi russe, mentre i loro avversari sono dotati di armi americane. Sembra quindi di facciata la “sorpresa” di fronte alla notizia dell’invio di armi e soldati russi in appoggio al governo di Damasco. Le trattative con Teheran sul nucleare hanno avuto come discreto sponsor la Russia e lo stesso Obama ha ringraziato ufficialmente Putin per il suo appoggio. Come ben illustra Michela Mercuri su ilsussidiario, ciò ha reso più semplice per Putin giocare a carte scoperte. La strategia russa ha un obiettivo coerente: sostenere Assad, aiutandolo nella lotta contro Isis e al-Nusra, e partecipare in prima fila al riassetto futuro della Siria, che probabilmente anche Putin, come il generale Stewart, vede destinata a una divisione. 

Obama si trova invece di fronte a varie contraddizioni: persegue ancora il mantenimento di uno Stato unitario in Siria dopo la cacciata di Assad, ma si trova di fatto alleato di quest’ultimo, e della Russia, contro gli estremisti; la battaglia contro il regime di Damasco, sostenuto dall’Iran, rischia di compromettere il faticoso cammino degli accordi con Teheran; l’alleanza con l’Arabia Saudita, pur in crisi, lo mette ancora una volta in rotta di collisione con Teheran, che sostiene apertamente i ribelli sciiti in Yemen bombardati dai sauditi. L’Europa è come al solito assente, ma questa volta almeno giustificata dalla tragedia dei profughi che si stanno riversando attraverso i suoi confini, una tragedia per la quale sarebbe giusto denunciare altri responsabili che non l’Ungheria di Orban.