Negli ultimi anni la politica neo-ottomana attribuita a Erdogan aveva dato un paio di buoni frutti, derivanti da una ripresa dei caratteri multinazionali dell’impero ottomano frantumatosi con la Prima Guerra mondiale, rispetto al principio “unica nazione in unico Stato” del modello francese laicista creato dai Giovani Turchi. L’anno scorso, per la prima volta da parte turca, Erdogan aveva ammesso la tragedia armena del 1915, cioè la deportazione forzata della popolazione armena che viveva in Turchia, che causò  da un milione a un milione e mezzo di morti. Erdogan ha respinto ogni accusa di genocidio, ma ha offerto le sue condoglianze “ai nipoti degli armeni uccisi nel 1915”. Una timida, seppur importante, apertura che si è rapidamente richiusa lo scorso aprile in concomitanza del centenario del genocidio, in occasione del quale Erdogan ha violentemente criticato anche Papa Francesco per aver utilizzato tale termine, con un raffreddamento notevole rispetto alle accoglienza dell’anno prima durante la visita papale ad Ankara. La manovalanza utilizzata per deportare gli armeni era costituita in buona parte da curdi e nei loro confronti è stata la seconda apertura di Erdogan, accettando l’invito di Ocalan, capo dei marxisti curdi del PKK, ad aprire trattative per porre fine alla lunga guerra terroristica della sua organizzazione contro lo Stato turco. Ocalan è noto agli italiani per aver cercato asilo politico anche in Italia nel 1998, per poi essere catturato a Nairobi da agenti turchi e portato in Turchia, dove è tuttora in prigione.



Sotto il precedente regime, ai curdi era negata una propria distinta identità ed era vietato l’uso della loro lingua, non turca ma indoeuropea, mentre Erdogan, in parallelo alle trattative più o meno segrete con il PKK, ha consentito l’uso della loro lingua anche durante le campagne elettorali, riconoscendone quindi l’identità nazionale, pur all’interno dello Stato turco. Tutto questo è finito a luglio con l’attentato dell’Isis nella cittadina turca di Suruc all’interno di un centro culturale gestito dall’Hdp, il partito curdo in Turchia, dove attivisti curdi e turchi stavano preparando aiuti da portare ai curdi siriani di Kobane, città simbolo della lotta curda contro lo Stato islamico. Da quel momento sono ripresi gli attentati del PKK, che accusa Erdogan di connivenza con l’Isis, e sono iniziati i bombardamenti turchi delle sue postazioni al confine siro – iracheno.



L’attentato di Suruc, con le sue decine di morti, ha tutte le caratteristiche di una trappola ben congegnata dall’Isis: in territorio turco, ma contro i curdi, ha riaperto il conflitto tra le due parti, indebolendo la lotta dei curdi contro l’Isis e indirizzando la reazione turca, piuttosto che contro il califfato, contro i curdi in generale. Infatti, le altre organizzazioni curde in Siria e in Iraq hanno rapporti con il PKK, seppure non sempre di alleanza, ma che li porta comunque a unirsi contro un nemico comune. Finora era l’Isis, ora rischia di essere anche la Turchia.

Secondo alcuni commentatori, il problema curdo per Erdogan si era già posto prima con le elezioni di giugno, in cui l’Hdp aveva raggiunto un imprevisto 13%, superando lo sbarramento del 10% e portando così una nutrita schiera di suoi rappresentanti in Parlamento, accanto agli altri due partiti di opposizione, laici e nazionalisti. L’Akp di Erdogan aveva così perso la maggioranza assoluta, né le successive trattative per costituire un governo di coalizione con uno degli altri partiti sono andate a buon fine. Nuove elezioni sono state perciò indette per novembre e la riapertura della questione curda, fatta precipitare dall’attentato di Suruc, sta offrendo motivi di propaganda nazionalista che potrebbero ridare all’Akp la maggioranza assoluta. Erdogan potrebbe così portare a compimento il programma di repubblica presidenziale più autoritaria che si dice persegua e che metterebbe in seria difficoltà le opposizione interne, sia i curdi che il partito laico. D’altro canto, le tentazioni autoritarie di Erdogan e del suo partito sono emerse in diverse occasioni negli ultimi anni.



A proposito di derive autoritarie, occorre però ricordare che nel precedente regime l’esercito era intervenuto per cancellare l’esito di elezioni non gradite. La possibile entrata in guerra conto lo Stato islamico e la possibile ripresa delle ostilità su larga scala contro i curdi potrebbero riportare in gioco l’esercito, messo finora in un angolo da Erdogan. L’aggravarsi della situazione curda è forse una delle ragioni che ha spinto la Russia a scendere apertamente in sostegno del regime di Assad, affiancando l’Iran. Putin probabilmente giudica la situazione siriana ormai fuori controllo e, pur di salvaguardare la base russa di Tartos, situata nella zona controllata dall’attuale governo, è disposto a far naufragare i recenti accordi, soprattutto economici, con la Turchia.

Sembra molto difficile che Erdogan riesca a realizzare quella zona di sicurezza in Siria, lungo il confine turco e difesa dall’esercito turco, che aveva lasciato apparentemente perplesso anche Obama. Forse perché suonava più come un’operazione contro Assad e i curdi, piuttosto che contro l’Isis, e avrebbe comportato una presenza diretta turca in Siria non gradita a molti altri attori della regione. Il motivo proclamato era di riportare in patria i due milioni di profughi siriani rifugiati in Turchia, o più realisticamente, di spostarne i campi di raccolta dalla Turchia in Siria. Forse l’allontanarsi di tale ipotesi è uno dei fattori alla base dell’improvviso afflusso di profughi siriani dalla Turchia all’Europa, esodo cui il governo di Ankara sembra essere indifferente. Eppure, il suo controllo sulle coste dovrebbe essere un po’ più efficiente rispetto a quello della caotica Libia.