L’Assemblea generale dell’Onu di quest’anno è particolarmente significativa non solo perché coincide con il settantesimo anniversario dell’organizzazione, ma perché si svolge nel periodo forse più ricco di tensioni dalla fine della Guerra fredda.
Anche l’Onu è sotto tensione ed emarginato rispetto ai molti conflitti che stanno sconvolgendo ampie regioni del mondo. Ne è una prova il discorso del suo segretario generale, Ban Ki-Moon, che ha esplicitamente accusato “i quattro anni di paralisi diplomatica del Consiglio di Sicurezza” di aver “portato fuori controllo” la crisi siriana. Rendendo così inefficaci, ha aggiunto, gli sforzi del suo inviato speciale nell’area e ha invitato il consiglio di sicurezza a raggiungere i necessari compromessi tra le varie posizioni per portare a conclusione il conflitto. Ha infine indicato cinque Stati come principali attori nella ricerca della soluzione alla crisi siriana: Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Iran e Turchia.
Un’analisi della crisi siriana del tutto condivisibile, ma che porta ufficialmente in primo piano l’urgenza di una drastica revisione dell’Onu, su cui non sarà facile giungere a una soluzione ampiamente condivisa, condannando così l’Onu a una costosa incapacità di azione.
Il Palazzo di Vetro continua però a rappresentare un palcoscenico da cui “i grandi” possono dialogare, sia pure indirettamente, come accaduto ieri tra Obama e Putin, una specie di prologo all’incontro avvenuto in tarda serata (nostra ora) tra i due. I loro discorsi dal podio hanno comunque già dato qualche interessante indicazione.
Nel discorso di Obama sono da sottolineare tre punti, a parte l’iniziale elogio alle Nazioni Unite per aver evitato (finora) una terza guerra mondiale. Il primo è la descrizione degli Stati Uniti come una, o meglio, la superpotenza, militarmente ed economicamente, con il contemporaneo riconoscimento che, malgrado questo, gli Usa non possono “risolvere i problemi del mondo da soli“.
Il secondo punto riguarda la Russia, con l’affermazione che non si poteva rimanere fermi di fronte all’aggressione all’Ucraina e all’annessione della Crimea, senza che ogni membro dell’Onu si sentisse minacciato. Obama ha subito aggiunto che gli Stati Uniti non vogliono un ritorno alla Guerra fredda, né tantomeno isolare la Russia. E’ suonato invece meno netto il riferimento alla Cina e alle sue operazioni nel Mare Cinese Meridionale, per cui si sono invocate soluzioni all’interno del diritto internazionale.
Infine, la Siria. Qui l’attacco a Bashar al Assad è frontale: “Quando un dittatore massacra decine di migliaia di persone nel suo stesso popolo, non è un affare interno di una nazione. Tocca tutti noi“. Obama ha però aggiunto: “Il realismo impone che sia trovato un compromesso“, la necessità quindi che si arrivi a gestire una transizione da Assad a un nuovo governo. Difficile non vedere in questa apertura, contraddittoria con le precedenti posizioni di Obama, l’implicito riconoscimento del fallimento della politica finora perseguita e dell’inutilità dei quattro anni di guerra in Siria. Inevitabile l’accettazione della necessità di una collaborazione con la Russia, che poco prima aveva ringraziato ancora una volta, insieme alla Cina, per la collaborazione prestatagli nelle trattative con l’Iran.
Obama ha poi continuato: “Altrettanto, quando un gruppo terroristico decapita prigionieri, massacra innocenti e schiavizza donne… è un attacco alla nostra intera umanità“, ma dichiarando che con l’Isis non possono esservi margini di trattativa.
Si può solo sperare che nel colloquio diretto queste aperture vengano ampliate e vengano portati avanti tentativi più seri di risoluzione dei conflitti ucraino e siriano, ma su quest’ultimo non si può fare a meno di notare un’ulteriore contraddizione di Obama. Nel suo discorso, il presidente ha affermato che l’esperienza irachena ha dimostrato che “neppure centinaia di migliaia di coraggiosi soldati e trilioni di dollari possono di per sé imporre stabilità a un Paese straniero. Ogni ordine imposto con le armi potrà essere solo temporaneo“.
Infatti, Obama si era opposto all’invasione dell’Iraq, ma dovrebbe spiegare perché in quel caso il massacro del suo popolo perpetrato da Saddam Hussein “non toccava tutti noi”, come invece ritiene nel caso di Assad o di Gheddafi.
L’ intervento di Putin è iniziato, come per altri oratori, con un riferimento alla seconda guerra mondiale utile per indicare, senza esplicitarne il nome, il sorgere nel dopoguerra di una potenza dominante, la superpotenza di Obama, ma con un accento senza dubbio molto meno positivo. Infatti, ha attaccato l’Occidente per aver tentato di esportare rivoluzioni democratiche, da lui definite “esperimenti sociali“, che hanno portato il caos in Medio oriente e il collasso della Libia.
Putin ha anche accusato l’Occidente di aver attaccato il governo di Damasco, unico vero avversario dell’Isis insieme ai curdi, rigettando le accuse sui crimini commessi dal regime. In fondo, il presidente russo non ha avuto bisogno di insistere più che tanto sulla proposta di un allargamento della coalizione anti Isis alla Russia e all’alleato Assad, vista la precedente apertura di Obama. Solo che ora sembra lui essere il promotore di questa coalizione, che finora era invece guidata da Washington.
Sulla questione ucraina, Putin ha accusato la Nato di aver promosso un colpo di Stato che ha portato all’attuale guerra civile, ma ha detto di ritenere gli accordi di Minsk la strada per risolvere pacificamente la vicenda. Questa affermazione sembrerebbe la rinuncia ad annettere anche il Donbass e quindi la possibilità della fine della guerra civile e il raggiungimento di un accordo tra Kiev e i separatisti filorussi.
Al di là delle dichiarazioni di facciata, sembrano esservi le premesse perché il colloquio diretto possa portare a notizie positive sui vari fronti aperti, anche se la strada sembra più in salita per Obama, che deve affrontare opposizioni interne ad accordi sia con la Russia e, soprattutto, con Iran e Assad. Putin invece non ha di certo problemi di opposizioni e per il momento passa per quello che conduce il gioco. Speriamo che ciò non condizioni Obama e lo porti a far saltare il banco.