Al di là delle dichiarazioni propositive dei due leader, dettate più da “cortesia diplomatica” che dalla realtà dei fatti, il vertice Obama-Putin di lunedì ha soltanto finito per ribadire la netta distanza tra il Cremlino e la Casa Bianca sulla spinosa questione siriana, segnando, a ben guardare, un punto a favore del leader russo. E questo nonostante ieri Barack Obama abbia annunciato la piena disponibilità degli Stati Uniti a “collaborare (…) con tutte le parti, incluse Russia e Iran”, per sconfiggere lo stato islamico.



Putin è arrivato a Washington in un’indubbia posizione di forza, con “in tasca” l’accordo raggiunto di recente con Iraq, Siria e Iran per la costituzione di un centro d’informazioni congiunto a Baghdad — che potrà essere usato in futuro per coordinare operazioni militari contro Daesh — e con una chiara strategia: solo ridando vita alle istituzioni ritenute “legittime”, e dunque combattendo a fianco della Siria di Bashar al Assad, e solo appoggiando l’Iraq, sarà possibile sconfiggere l’Isis, ricostituire un ordine mediorientale e impedire a milioni di profughi di riversarsi in Europa. 



In altre parole, la Russia non sta soltanto schierando aerei, uomini e mezzi in territorio siriano, ma sembra sempre più intenzionata a conquistare l’egemonia politica nell’area. Se la posizione russa dovesse prevalere, il governo damasceno verrebbe supportato e finanziato, almeno fino a quanto non vi saranno i presupposti per una transizione. Putin, infatti, sembra avere intuito che Assad non potrà comunque reggere a lungo, serve un compromesso per la transizione. Ed è per questo che il leader del Cremlino avrebbe spinto per la costituzione, a breve, di un tavolo negoziale con il coinvolgimento delle principali potenze regionali — Iran, Arabia Saudita, Turchia ed Egitto. Insomma, una posizione chiara e ben definita, per quanto opinabile su alcuni punti.



Di certo meno incisiva la posizione di Obama, che dal vertice è risultato senza dubbio indebolito. “C’è qualcuno che ci dice che dovremmo sostenere dei tiranni come Assad, perché l’alternativa è peggiore”, continua a ripetere il leader della Casa Bianca ma, ad oggi, dinnanzi al mattatoio siriano — 250mila morti e 4 milioni di rifugiati, secondo le stime recenti di Human Rights Watch — da Obama ci si aspetterebbe qualcosa di più. La strategia americana non convince, non convincono i raid aerei che fin qui hanno portato a risultati piuttosto parziali tanto in Siria quanto in Iraq, così come non convince l’idea di far fuori Assad e allo stesso tempo di annientare il califfato. 

E’ evidente che non si possono  combattere gli jihadisti dello stato islamico e allo stesso tempo il loro principale avversario. A meno che non vi sia nel territorio un attore forte e affidabile e con un peso specifico tale da poter riempire il vuoto che inevitabilmente si andrebbe a creare nella Siria post-Assad, attore su cui sarebbe necessario puntare fin da ora per il futuro del paese. 

Ma questo attore ad oggi non esiste. Affidarsi di nuovo ai curdi, come già fatto in Iraq, significherebbe quantomeno sopravvalutare un attore che non solo ha un peso marginale nel complesso risiko siriano — di fatto i curdi occupano solo la parte settentrionale della Siria, il cosiddetto Rojava — ma anche con un’affidabilità tutta da dimostrare. L’obiettivo curdo, infatti, è quello di far perno sulla frammentarietà dello scenario siriano per realizzare, almeno parzialmente, il sogno di una propria enclave nel territorio. 

Stessa cosa per le variegate e indefinibili forze dei ribelli anti Assad della prima o della seconda ora. Solo per dare un’idea, Jeff Davis portavoce del Dipartimento di Difesa americano, ha recentemente ammesso la consegna, da parte di un gruppo di ribelli siriani addestrati e armati dagli Stati Uniti, di mezzi e munizioni agli jiadisti di Jabhat al-Nusra. E’ solo l’ennesimo fallimento del “progetto americano” di addestrare combattenti selezionati del Free Syrian Army, un “progetto” costato oltre 500 milioni di dollari spesi per selezionare, addestrare e armare un gruppo di appena 60 combattenti, la maggior parte de quali sono stati rapiti, uccisi o sono fuggiti, mentre i reduci hanno ceduto mezzi e munizioni ai qaedisti siriani. 

Insomma, pensare di puntare su questi attori vorrebbe dire, nella migliore delle ipotesi, replicare quanto fatto in Libia, armando dei gruppi di ribelli non meglio identificati e facendo perno sugli insorti del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, soggetto senza alcuna legittimazione né controllo del territorio. Strategia che si è dimostrata l’anticamera della somalizzazione del paese con tutte le conseguenze a noi oggi tristemente note. 

Insomma, stante così le cose, il disegno imperialista putiniano, nonostante tutto, finisce per apparire quello più credibile e praticabile e tutto questo nonostante l’impresentabilità di Assad che, nessuno intende negarlo, è stato e resta il “boia di Damasco” ma che oggi, dinanzi all’inerzia delle cancellerie occidentali, è finito per diventare, paradosso dei paradossi, il minore dei mali. Il leader del Cremlino ha messo così a segno un colpo di strategia diplomatica di tutto rispetto: ha rafforzato la presenza militare russa in aree strategiche della Siria, l’ha nobilitata in nome della guerra al califfato, ha giocato sull’inerzia e sulle strategie fallimentari della comunità internazionale per assurgere al ruolo di guida di una possibile coalizione allargata anti-Isis e, coup de théâtre, ha poi gettato sul tavolo l’asso di un accordo di intelligence con Teheran, Baghdad e Damasco, mostrando a tutti di avere le spalle ben riparate dalla mezzaluna sciita e finendo per convincere molti che, cosa inimmaginabile fino a qualche mese fa, il male minore in questo momento possa essere l’amico Bashar.