“L’Occidente non attenda l’insediamento del governo Al-Sarraj, ma prepari un intervento militare in Libia sotto l’egida dell’Onu oppure con una decisione congiunta di Usa, Regno Unito, Francia, Germania e Italia”. Lo sottolinea Franco Frattini, ex ministro degli Esteri ed ex Commissario Ue per la giustizia, la libertà e la sicurezza. Martedì un commando ha attaccato l’impianto Eni di Mellitah, proprio nel momento in cui Daesh sta lanciando un’offensiva su più livelli in tutta la Libia. Ed è giallo per un Boeing Stratotanker francese, usato per il rifornimento in volo, che ha quasi raggiunto le coste libiche dopo avere fatto rotta sui cieli di Sardegna e Sicilia.
Frattini, la situazione è preoccupante. Perché l’Italia sta a guardare?
Non è vero che l’Italia sta a guardare, anzi molte cose sono state fatte. Per esempio si è incoraggiato un governo di unità nazionale, tanto che il premier designato Al-Serraj ha affidato all’Italia il compito delicato di guidare una futura missione per la ricostruzione e il sostegno alla Libia. Ora però stanno emergendo delle difficoltà nuove, non da ultimo l’attentato allo stesso Al-Serraj. Per non parlare del fatto che le milizie gli hanno impedito persino di entrare nella città di Tanura, dove il suo governo avrebbe dovuto insediarsi. Quindi sono tutti segnali che dall’interno della Libia indicano difficoltà crescenti.
Che cosa dovrebbe fare il nostro governo?
L’Italia dovrebbe cercare una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che sia ancora più chiara di quella che è stata adottata dopo Parigi. Dopo il 13 novembre si è detto che “la comunità internazionale può fare tutto quanto occorre per colpire l’Isis”. Bisognerebbe avere un via libera dell’Onu a una coalizione anti-terrorismo su scala più ampia, perché se i tentativi di dare attuazione al governo libico dovessero ancora ritardare, abbiamo un premier designato ma non un esecutivo nel pieno delle sue funzioni.
Possiamo permetterci di aspettare?
No, l’Isis sta avanzando e il tempo è un fattore decisivo. La comunità internazionale dovrebbe tenere nel cassetto l’ipotesi di un’azione anti-terrorismo da compiersi anche prima che il governo di Al-Sarraj sia formalmente operativo. Corriamo il rischio che passi troppo tempo.
Lei che cosa propone?
Al G20 di Ankara si era tenuta una riunione in formato “Quint”, composto da Usa, Regno Unito, Francia, Germania e Italia. Il Quint ha sempre operato molto bene dai tempi della guerra nei Balcani, e anche una nuova decisione sul terrorismo potrebbe partire da questo formato, in consultazione con la Russia.
I Paesi occidentali impiegherebbero molto tempo a intervenire in Libia?
Intanto registro con molta attenzione i movimenti registrati sul cielo libico. Il fatto che un aereo francese per il rifornimento in volo sia segnalato al largo del Golfo di Sirte significa che in zona ci sono dei caccia militari. Si ripetono inoltre voci, che reputo convincenti, sulla presenza sul cielo libico di cacciabombardieri americani e inglesi. Abbiamo visto con i nostri occhi che quando l’aereo militare italiano è andato a recuperare i feriti di Misurata, nell’aeroporto c’erano forze speciali del nostro Paese che proteggevano l’operazione. Tutti questi elementi significano che già esistono dei dispositivi che stanno operando sul territorio libico in ambiti molto limitati.
Lei come configurerebbe un’operazione internazionale?
Si tratta di organizzare delle azioni mirate di bombardamento come in Siria, per colpire le basi dell’Isis in Libia. A differenza della Siria, il territorio libico è tracciabile più facilmente. Colpire una base di Daesh in mezzo al deserto come vicino a Sirte è più facile che non nel territorio siriano, che è molto urbanizzato. Oltre alle azioni mirate vedo con favore un’immediata azione di addestramento delle forze militari libiche. Questo presuppone l’esistenza di un governo libico, ma stando a quanto ha detto martedì il premier Al-Sarraj le truppe del generale Haftar saranno ufficialmente riconosciute.
Intanto sempre martedì c’è stato l’attentato a Istanbul. Lei come lo legge?
La Turchia paga il prezzo di alcuni comportamenti ambigui. Da un lato il Paese ha il merito di ospitare un milione e mezzo di rifugiati siriani. Dall’altra ha la colpa di essere stata lenta nello schierarsi contro Daesh. Erdogan alla fine ha capito che il suo nemico è il califfato, che anche martedì ha usato della generosità turca: l’attentatore aveva richiesto l’asilo usando gli strumenti della solidarietà per portare la morte.
Lei come valuta il comportamento di Erdogan?
Oggi Ankara dovrebbe sgombrare il campo dal contrasto con la Russia, il Paese che a parte gli occidentali più fortemente sta contribuendo a colpire Daesh. Eppure la Turchia considera la Russia quasi come un suo nemico. Questo è un comportamento che indebolisce Erdogan. Sia pure tardivamente, la Turchia ha iniziato a colpire il califfato, che ha reagito attaccando Istanbul, il cuore del paese. L’attentato ha però colpito anche un gruppo di turisti tedeschi, cioè il Paese che è stato in prima linea nel dare gli aiuti ad Ankara in relazione ai rifugiati.
(Pietro Vernizzi)