Un certo rumore ha suscitato nei giorni scorsi la notizia di una possibile quotazione, sia pure marginale, della Saudi Aramco, la società petrolifera di Stato dell’Arabia Saudita. Tanto più che la fonte era del tutto autorevole: il principe Mohammad bin Salman, figlio del re e secondo nella successione al trono, ministro della Difesa e responsabile ultimo anche della politica petrolifera del regno. La dichiarazione, contenuta in una lunga intervista esclusiva al britannico The Economist, ha colto di sorpresa gli analisti, ma, pare, anche i vertici stessi dell’Aramco. 



Nei giorni successivi la notizia è stata un po’ ridimensionata, ponendo in luce i numerosi e non indifferenti ostacoli che l’operazione presenta, sia per gli eventuali investitori stranieri, sia all’interno dello stesso regno saudita. Aramco è stato finora un oggetto misterioso accessibile solo dall’interno, da chi vi comanda e dalla famiglia regnante, e la trasparenza necessaria per una quotazione in Borsa richiede un processo complesso e lungo. 



Nel giro di “pochi mesi”, per citare il principe, potrebbero essere tuttavia quotate società della capogruppo, operanti nei più allettante downstream, raffinerie e petrolchimica. L’Arabia Saudita è sempre più presente in questo settore con partecipazioni in società di diversi Paesi, compresi gli Stati Uniti. Il basso prezzo del petrolio aumenta i margini di profitto del settore e consente alle compagnie petrolifere di recuperare parzialmente le perdite sul crudo.

Lo stralcio di intervista pubblicato da The Economist (l’incontro con il principe è durato cinque ore) contiene molti altri spunti sul futuro dell’Arabia Saudita, che bin Salman vede sempre meno dipendere esclusivamente dal petrolio. Le proposte sono un po’ generiche e parlano di progressive privatizzazioni e liberalizzazioni di un’economia fortemente statalizzata, ben differente da quelle occidentali, malgrado i riferimenti del principe alla Thatcher come modello. Basti pensare che l’unica imposta prevista dal piano di bin Salman è l’Iva al 5% su beni non di prima necessità, escludendo ogni imposta patrimoniale o sul reddito. Arabia Felix!



Due terzi dei cittadini sauditi lavorano nella Pubblica amministrazione, ma pur mancando statistiche precise sulla disoccupazione, si prevede la necessità di una fortissima crescita dei posti di lavoro nel prossimo futuro, dato che il 70% della popolazione non supera i 30 anni. Il principe stesso è un trentenne e si considera rappresentante dei giovani e a una precisa domanda del giornalista su come si possa aumentare in modo così notevole l’occupazione risponde che il turismo, i pellegrinaggi e l’attività mineraria (l’Arabia ha il 6% delle riserve mondiali di uranio) possono fornire moltissimi posti di lavoro. In più, ci sono estesi territori di proprietà statale, ora non utilizzati, come per esempio una località che potrebbe diventare un pericoloso concorrente dei più pregiati luoghi turistici del Mar Rosso. 

Comunque, aggiunge, esiste una riserva di 10 milioni di posti di lavoro, ora occupati da stranieri, che possono essere ricuperati a favore dei cittadini sauditi. Occorre vedere se costoro accetteranno di essere trattati come i loro concittadini trattano i lavoratori stranieri e, infatti, il principe dichiara di lasciare questo argomento ai privati. A meno che se ne debba occupare personalmente, se fallissero tutte le altre iniziative. 

Questa affermazione è significativa di come, sotto dichiarazioni “occidentalizzate” che parlano di democrazia, governo del popolo, libertà delle donne (con un esplicito scetticismo dell’intervistatore), anche il principe non si discosti dalla concezione di uno Stato indissolubilmente legato alla famiglia regnante e, pur senza riferimenti espliciti, alla concezione di islam puritano che da sempre lo regge.

Interessanti le risposte alle domande sulle esecuzioni e sui rapporti con l’Iran. Dopo aver affermato che i processi sono stati rispettosi di uno Stato di diritto, come afferma essere l’Arabia Saudita, nega ogni distinzione tra sunniti e sciiti. In effetti, anche nelle esecuzioni di massa sono state rispettate le proporzioni esistenti tra la popolazione. Sull’esecuzione del religioso sciita, fa presente che al-Nimr era un cittadino saudita e quindi l’Iran non doveva interessarsi al suo caso. Comunque, esclude che da parte saudita si voglia far precipitare la situazione, ma che sono gli iraniani ad attuare una politica aggressiva e che anche in Yemen l’Arabia Saudita si sta solo difendendo da una minaccia ai suoi confini. 

L’immagine dell’Arabia Saudita trasmessa dall’intervista è quella di un Paese che ha ancora molto da fare per modernizzarsi e soprattutto per rendere più trasparenti le sue istituzioni e i suoi meccanismi, ma che ha già fatto molto e che molto ancora farà, in particolare per merito dei giovani, di cui lui è il rappresentante. L’intervista è tutta in prima persona, come se bin Salman fosse il re, e lo stesso Economist fa notare come sia poco citato il re suo padre e completamente assente il cugino, primo erede al trono.

È difficile stabilire se questa intervista indichi un reale tentativo di modernizzazione e democratizzazione, se questo tentativo sia condiviso dal re, o se invece sia una fuga in avanti del principe per spiazzare i conservatori restii alle riforme. Senza dubbio è un tentativo di rendere l’Arabia Saudita attraente per gli investitori, anche se traspare una certa preferenza perché tutto rimanga “in famiglia”. Certo è che il petrolio comincia a stare stretto ai sauditi ed è molto interessante che ciò venga detto da chi è considerato il fautore dell’attuale guerra del petrolio. 

Così com’è interessante, e un po’ preoccupante, il riferimento a quel 6% delle riserve mondiali di petrolio, che fa pensare alla rivalità Arabia e Iran come a un fatto fortunato, almeno sotto il profilo della minaccia nucleare.