La monarchia saudita ha evidentemente deciso di affrontare la pericolosa situazione in cui si trova continuando ad alzare la posta, con la contemporanea esecuzione di 47 condannati e confermando la propria posizione in testa alla classifica degli Stati che più utilizzano il carnefice. Ancora una volta si sono levate forti le proteste delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, che hanno denunciato l’assoluta arbitrarietà dei giudizi, l’uso esteso della tortura e l’utilizzo dell’etichetta di terrorista per colpire gli oppositori. Questa volta si è mosso anche qualche governo europeo e, per l’Unione Europea, Federica Mogherini, mentre non c’è molto da aspettarsi dall’Onu, nel cui Consiglio per i diritti umani siede l’Arabia Saudita, con l’assenso di Stati Uniti e Ue. Non solo, ma qualche mese fa l’ambasciatore saudita all’Onu è stato nominato presidente del comitato che sceglie gli esperti che dovranno accertare le violazioni ai diritti umani nei vari Stati.
Le sentenze parlano di partecipazione ad attentati o a congiure contro lo Stato, con riferimento in particolare ad al Qaeda e all’Isis, ma è interessante notare quanto riporta la Saudi Press Agency, citando il ministero degli Interni saudita. L’elenco dei crimini commessi dai condannati si apre con l’accusa di aver abbracciato credenze takfiri, cioè eretiche o apostatiche, e di averle promosse con mezzi ingannevoli; solo dopo viene anche l’accusa di aver aderito ad organizzazioni terroristiche. Ciò porta al punto più pericoloso di questa escalation saudita, l’esecuzione di un religioso sciita, lo sceicco Nimr al-Nimr: come noto, i sunniti considerano eretici gli sciiti.
All’epoca delle Primavere arabe, nella parte orientale della penisola, a maggioranza sciita, vi erano state manifestazioni contro le discriminazioni nei confronti degli sciiti, che avevano portato anche a scontri violenti. Al-Nimr era stato uno dei principali sostenitori di queste rivendicazioni, pur rifiutando l’uso della violenza, e aveva anche fortemente criticato l’intervento militare saudita in Bahrein a fianco del governo sunnita per reprimere le manifestazioni della maggioranza sciita. Nel 2012 al-Nimr fu arrestato e nel 2014 condannato a morte.
L’Iran aveva immediatamente chiesto la sospensione della pena, minacciando rappresaglie e molti pensavano fosse nell’interesse di tutte le parti addivenire a una soluzione politica della questione, invece il governo saudita ha preferito, come detto prima, alzare la posta in gioco. L’esecuzione dello sceicco ha già prodotto manifestazioni e scontri sia nella provincia orientale di Qatif che a Bahrein e scatenato violente reazioni in tutto il mondo sciita. In particolare l’Iran ha usato toni molto alti che non promettono nulla di buono sui vari fronti aperti a partire dallo Yemen, dove è stato dichiarato scaduto il già traballante accordo di cessate il fuoco tra governativi, appoggiati dai sauditi, e ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran. Anche il governo iracheno ha protestato vivamente, tanto più che da pochi giorni era stata riaperta a Baghdad, dopo 25 anni, l’ambasciata saudita.
Nel 2012 era stato arrestato anche Ali Mohammed al-Nimr, diciassettenne nipote dello sceicco, poi condannato a essere decapitato e crocefisso, sul destino del quale ci si sta ora interrogando. In un’intervista dello scorso ottobre a The Guardian, la madre del ragazzo si rivolse a Obama definendolo il “capo del mondo” e quindi in grado di salvare suo figlio, evitando loro “una grande tragedia” e aumentando la propria stima “agli occhi del mondo”. Non conosco la risposta della Casa Bianca, ma così alle tragedie dei singoli si affiancano quelle della geopolitica.
La politica di Obama in Medio Oriente è stata spesso giudicata confusa quando non inesistente e, soprattutto negli ultimi tempi, è stato criticato il suo comportamento nei confronti del regime saudita. Anche nei viaggi in Arabia Saudita dello scorso anno e all’inizio del 2015, Obama non ha mai neppure accennato al problema della violazione dei diritti umani, argomento cui è molto sensibile quando si tratta della Siria di Assad o della Russia di Putin.
Purtroppo, l’etica deve spesso passare in secondo piano rispetto alla realpolitik, ma anche sotto questo profilo sembra mal posta la fiducia americana nei sauditi, strani “alleati” che hanno sempre finanziato gli estremisti islamici e direttamente attaccato gli Usa con la guerra del petrolio in corso e che, con questa ultima mossa, rischiano di cancellare uno dei pochi successi di Obama sul piano internazionale: l’accordo con l’Iran. A meno che.
A meno che si tratti di una diabolica mossa della Casa Bianca per innalzare il livello dello scontro, con disordini o rivolte nel Qatif e conseguente riduzione della produzione petrolifera araba, e con la conquista dello Yemen da parte dei ribelli sciiti, dando a Teheran il controllo delle vie marittime del petrolio e la possibilità di bloccare le esportazioni dei Paesi del Golfo alleati dei sauditi. L’inevitabile aumento del prezzo del petrolio favorirebbe la ripresa dello shale oil americano e, danno collaterale peraltro anch’esso inevitabile, del petrolio russo, con un sollievo per i bilanci di molti altri Stati produttori, tra cui un Venezuela appena uscito da elezioni che hanno visto la vittoria delle opposizioni al regime chavista anti Usa.
Fantascienza? Probabile, ma in questi ultimi tempi la realtà tende a superare spesso la fantasia e, comunque, le previsioni cosiddette “razionali”.