Se quello appena trascorso non può certo essere ricordato come l’anno d’oro della politica estera italiana nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, il 2016 potrebbe segnare un nuovo attivismo, per lo meno nella stabilizzazione del quadrante nordafricano. Ci si riferisce, naturalmente, alla Libia in cui, con non poco ritardo, negli ultimi concitati mesi si sono riversati gli sforzi della comunità internazionale.
Dopo il vertice di Roma del 13 dicembre, che ha dato vita ad una ambiziosa road map per la ricostruzione della Libia; la firma, il 17 dicembre, dell’accordo per un governo di unità nazionale da parte di alcuni delegati di Tripoli e Tobruk (senza però un mandato ufficiale delle rispettive presidenze) e il “cappello” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ne ha approvato all’unanimità la legittimità, la “strada internazionale” per la riconciliazione della Libia sembra oramai segnata, anche se questo non ci rassicura sul fatto che sia possibile percorrerla senza incidenti.
In netta controtendenza rispetto alle crisi che si sono succedute nel quadrante levantino, dove l’Italia è stata considerata spesso il fanalino di coda della diplomazia internazionale, in Libia il governo italiano sembra destinato, forse suo malgrado, a dover ricoprire un ruolo di primo piano. Non è un caso se, seppure con qualche mal di pancia nordeuropeo, e francese in primis, il nuovo premier designato libico Fayez Al-Serraj abbia scelto come prima meta europea proprio Roma, giocando addirittura la carta della riapertura del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione italo-libico. L’accordo firmato nel 2008 dall’allora premier Berlusconi e da Muhammar Gheddafi prevedeva, tra le altre cose, il rafforzamento della special relationship economica tra i due paesi, cosa che, forse, oltre al malumore delle cancellerie europee, ha anche favorito la repentina mossa anglo-francese di sostenere ad occhi chiusi i ribelli anti-Gheddafi durante le rivolte del 2011. Ora, se da un lato è plausibile nutrire dei dubbi sulla rappresentatività di Al-Serraj che, giova ricordarlo, nasce da un accordo non sostenuto ufficialmente dalle presidenze dei due governi libici di Tripoli e Tobruk né da molti gruppi e milizie locali, dall’altro ciò non toglie che la Libia è un nostro interesse nazionale prioritario per motivi di sicurezza, economici, energetici, storici e geografici e certo non possiamo permetterci di declinare l’invito.
In primo luogo, nonostante la capacità produttiva dell’ex Jamahiriya sia oggi decisamente inferiore rispetto al passato, la Libia resta il nostro principale fornitore di petrolio e di gas, attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti, mentre sono italiane molte delle attività estrattive off shore ancora realizzate nel paese. Inoltre in Libia, ancora oggi, oltre ai colossi come Saipem, Tecnimont ed Edison permangono — secondo dati recenti della camera di commercio italo-libica — quasi un centinaio di imprese che, seppure a fatica e con un “basso profilo”, in taluni casi riescono a portare avanti le proprie attività, mentre in altri, pur avendo chiuso momentaneamente battenti, sono pronte a ripartire.
Non stupisce dunque come, dal punto di vista energetico ed economico, esista una sorta di reciproca indispensabilità tra i due paesi, nonostante le frammentazioni interne alla Libia e gli interessi delle varie milizie locali abbiano reso i rapporti decisamente più difficoltosi. Da questo punto di vista l’Italia, al di là della possibilità o meno della riapertura del Trattato, potrà giocare un ruolo primario, facendo perno anche su quei rapporti economici tenuti in piedi a fatica nel risiko libico post-gheddafiano, ma mai sopiti del tutto.
In secondo luogo, sulla Libia si gioca una parte significativa della nostra credibilità internazionale in parte persa quando, nel 2011, l’azione bellica scatenata dagli anglo-francesi e poi condotta fiaccamente dalla Nato ha visto l’Italia, tirata per il bavero del cappotto, prendere parte ad un’operazione senza “né capo né coda” che in realtà perseguiva soltanto gli interessi nazionali dei nostri presunti “alleati”. In questi giorni alcuni quotidiani nazionali e internazionali hanno riferito di forze speciali britanniche e statunitensi già presenti in alcune zone del Paese con compiti di ricognizione e intelligence, mentre i jet francesi della portaerei De Gaulle hanno effettuato ricognizioni su Sirte e altre città libiche. La linea ufficiale del governo italiano, per lo meno fino ad ora, è stata ferma sulla volontà di non effettuare azioni belliche in territorio libico contro lo stato islamico, perseguendo, invece, un approccio di soft power con una missione di supporto e addestramento delle forze locali. Resta ora da capire se e come l’Italia riuscirà a perseguire questa sua linea e a conciliarla con un possibile ruolo di guida di una coalizione che, invece, ha tutta l’aria di volersi “sporcare le mani”, anche se per ora non “gli stivali”.
Infine, la Libia è un tassello fondamentale della nostra sicurezza interna, vista la prossimità alle nostre coste e la posizione centrale nel Mediterraneo ed anche per questo motivo l’Italia deve operare tutti gli sforzi possibili per la stabilizzazione del paese. Il premier Renzi, durante il recente incontro con Al-Serraj, ha più volte sottolineato come l’Italia intenda essere protagonista e supporter del percorso di stabilizzazione e ricostruzione politica ed economica della Libia. Parole che hanno un tono “rassicurante”, certo, ma resta il fatto che, come già ricordato, ci sono quantomeno dei dubbi sul reale peso del nuovo premier libico che potremmo definire “legittimato” dalla comunità internazionale ma non “legittimo” per molti libici. Inoltre, la tortuosa strada di questo nuovo anelato state building libico è ancora minata da molte milizie e gruppi jiadisti, Isis compreso, che occupano alcune zone del paese e qualunque tentativo di stabilizzazione dovrà tenere conto del fatto che prima di costruire le fondamenta sarà necessario quantomeno bonificare il terreno.