La rottura delle relazioni diplomatiche con l’Iran sembra aver avviato l’Arabia Saudita alla sua terza guerra, dopo l’intervento nello Yemen e la guerra del petrolio, il primo motivato dal pericolo di una vittoria dei ribelli Houthi e l’instaurarsi di  un regime ostile ai suoi confini, la seconda per mettere in difficoltà pericolosi concorrenti, come Russia, Usa e Iran. 



Meno facile capire le ragioni del braccio di ferro con l’Iran provocato dall’esecuzione di un autorevole religioso sciita, lo sceicco Nimr al-Nimr. L’esecuzione di massa, 47 condanne a morte eseguite in un solo giorno, sarebbe rimasta tale anche senza l’uccisione dello sceicco, dando un forte segnale contro il terrorismo, se è questo che si voleva.



Per inciso, le proteste dell’Iran per questa esecuzione vengono da uno Stato che è secondo solo alla Cina per numero di condanne a morte eseguite e che, in proporzione alla popolazione, rimane saldamente in cima a questa macabra classifica, seguito appunto dall’Arabia Saudita.  

Difficile quindi non considerare quest’esecuzione come una voluta provocazione non solo all’Iran, ma a tutto il mondo sciita, e in particolare alla propria minoranza interna e alla maggioranza sciita del vicino Bahrein. La maggioranza dei commentatori esclude, credo con ragione, che si voglia arrivare realmente a uno scontro militare diretto, che, oltre che per l’intera regione, sarebbe disastroso per la stessa Arabia Saudita.



La mossa potrebbe essere perciò interpretata come un rischio calcolato, sia pure azzardato, per uscire da problemi interni e da un ruolo secondario sul piano internazionale in conseguenza dell’espansione dell’Isis, di cui i sauditi sono parzialmente ritenuti responsabili, e dell’intervento russo in Siria che, insieme all’accordo di Obama con Teheran sul nucleare, ha riposizionato l’Iran in un ruolo centrale nella regione. In questo senso Riyadh ha già ottenuto qualche successo con l’inasprimento a diversi livelli delle relazioni diplomatiche con l’Iran di Emirati Arabi, Kuwait, Sudan ed Egitto. Un altro successo può derivare dalla rottura delle trattative sulla crisi in Siria, ma il tutto pare essere all’insegna del “tanto peggio, tanto meglio”, segnalando un’obiettiva difficoltà del regime saudita.

L’esecuzione dello sceicco e l’innalzamento dello scontro con l’Iran non sono state bene accolte in molte cancellerie occidentali, anche se l’Onu si è limitato a condannare l’assalto alle rappresentanze diplomatiche saudite in Iran, senza menzionare le esecuzioni. Forse perché la critica sarebbe stata in contraddizione con il ruolo preminente assegnato all’Arabia Saudita nel Consiglio per i diritti umani, una delle tante contraddizioni di questa ineffabile istituzione.

L’assalto alle rappresentanze diplomatiche è ovviamente da condannare, ma chi viene così messo in reale difficoltà è il presidente iraniano Rohani e i suoi tentativi di apertura, mentre ne escono rafforzati gli oppositori interni, cioè i fondamentalisti sciiti. Qualcosa di simile era avvenuto con gli attentati di Parigi proprio alla vigilia della visita di Rohani a Roma e Parigi, visita ovviamente annullata. Quella volta è stata l’Isis, ora il governo saudita. 

Un po’ preoccupante è l’appoggio del regime sudanese, che aveva peraltro già inviato truppe a combattere in Yemen contro i ribelli sciiti, mentre risulta significativo l’appoggio del Cairo. Tuttavia, l’obiettivo appare essere quello di una maggior presenza nella regione più che un aiuto diretto a Riyadh, magari per contrastarne i tentativi di porsi più decisamente come leader del mondo sunnita. In questa direzione va letto il recente lancio saudita, rimasto per il momento sulla carta, di una coalizione di 34 Stati sunniti per combattere il terrorismo. 

Più defilata la reazione della Turchia, il cui primo ministro Ahmed Davutoglu ha invitato Arabia Saudita e Iran ha trovare un accordo per via diplomatica, offrendo l’aiuto del proprio governo in tal senso. Grosso modo la stessa posizione della Russia e sulla stessa linea si è espresso anche il ministro degli Esteri tedesco.

Non vi è stato invece finora un intervento personale di Barack Obama, ma solo dichiarazioni di funzionari della Casa Bianca e del segretario di Stato John Kerry, che hanno anch’essi riaffermato la necessità di raffreddare la situazione e di continuare a collaborare alla soluzione dei gravi problemi della regione.

Sia pure in modo non aperto, l’Arabia Saudita può avere l’appoggio anche di Israele, che considera l’Iran il suo più pericoloso nemico e, infatti, il governo israeliano ha visto molto negativamente l’accordo con l’Iran sul nucleare, ritenendo che non verrà rispettato da Teheran. Tuttavia, è improbabile che Netanyahu voglia avventurarsi in un confronto diretto con gli iraniani, a meno di qualche mossa avventata di Hezbollah o di qualche altra milizia. Paradossalmente, sulla stessa posizione sono i palestinesi di Fatah, che da Riyadh ricevono sostanziosi aiuti finanziari, mentre quelli di Hamas sono sostenuti dalla Turchia e, forse, dallo stesso Iran, in funzione anti-israeliana.

La posizione più ragionevole sembrerebbe, ancora una volta, un’azione combinata tra i due maggiori giocatori, Obama e Putin, non solo per raffreddare ma per avviare a soluzione l’intricata questione, come si era cominciato a fare per la Siria.