Il ruolo di guardiani del mondo e di propugnatori della democrazia che gli Stati Uniti si sono attribuiti è una delle motivazioni alla base dei loro numerosi interventi in Medio Oriente e, anche, del loro insuccesso. Eppure, all’epoca della guerra in Iraq, Bush fu rimproverato proprio sulla base del principio che la democrazia non si può esportare, né tanto meno imporre, con le armi.
Al massimo, si può reintrodurre dove già esisteva, come in Europa con la vittoria sul nazismo nella seconda guerra mondiale e poi con la guerra fredda e il crollo dell’Unione Sovietica.
Nonostante questo e le sue dichiarazioni “pacifiste” di otto anni fa, Obama ha approvato la guerra in Siria per cacciare Assad e in Libia per abbattere Gheddafi, sia pure con un casus belli più “pulito” rispetto a quello di Bush per l’Iraq, primavere arabe contro presunte armi di massa. Le primavere arabe sembrano essere però servite da copertura di ben altro scopo: il controllo della regione per riempire il vuoto lasciato dalle potenze europee e contrastare la progressiva espansione dell’influenza russa e, in parte, cinese.
Rispetto alla crisi in Ucraina o a quella nel Mar Meridionale cinese, dove il rischio è un letale confronto diretto rispettivamente con Russia e Cina, in Medio Oriente e in Nord Africa la situazione appare, o almeno appariva, relativamente poco pericolosa per gli Stati Uniti. E’ probabile che questo abbia reso particolarmente “superficiale” la politica americana in quest’area.
C’è da chiedersi, infatti, quale assetto avesse in mente Obama per la Siria del dopo Assad e se l’esperienza del contiguo Iraq non avrebbe dovuto ispirare molta più cautela. Washington sembra inoltre aver del tutto sottovalutato la capacità di resistenza del regime siriano e il valore strategico della Siria per la Russia, con il risultato che il costo dell’operazione si sta alzando anche per gli Stati Uniti, con un confronto sempre più diretto con Mosca.
Se l’obiettivo era, cinicamente, di rendere ingovernabile la Siria per tenere in scacco le altre potenze regionali e la Russia, rendendo così necessario il ruolo di “regolatore” di Washington, siamo di fronte a una altro drammatico errore, che viene pagato con il sangue dei siriani.
Gli stessi errori di calcolo si riscontrano nella decisione di Obama di appoggiare Francia e Regno Unito nel loro attacco alla Libia, per abbattere Gheddafi e in funzione anti italiana: i costi di questa disastrosa operazione sono pagati, oltre che dalle popolazioni libiche, proprio dall’Italia.
Alla situazione libica è collegata quella dell’Egitto, dove la politica di Obama di sostanziale appoggio ai Fratelli musulmani ha subito un deciso rovescio con la ripresa del potere da parte dei militari. Il governo di al Sisi si è schierato al fianco del generale Haftar e del governo di Tobruk, che si contrappongono al governo di unità nazionale sostenuto da Washington. Un effetto collaterale è dato dai crescenti rapporti tra Mosca e Il Cairo, anche in materia di armamenti, con un conseguente coinvolgimento indiretto della Russia anche in Libia.
Almeno un successo in Medio Oriente Obama lo ha ottenuto, cioè l’accordo con l’Iran sul nucleare, che comporta però effetti in parte negativi. Lo sdoganamento di Teheran ha avvantaggiato la Russia, sponsor dietro le quinte dell’accordo, e rafforzato l’Iran e il suo ruolo in Iraq e in Siria, irritando l’Arabia Saudita, l’alleato per eccellenza degli Stati Uniti nella regione e avversario dichiarato di Teheran.
I rapporti con il regime saudita sono particolarmente imbarazzanti per il conclamato ruolo americano di difensori della democrazia e negli Stati Uniti stessi ci si chiede sempre più diffusamente perché un governo che sente il “dovere morale” di abbattere dittature come quelle di Gheddafi o Assad non si periti di sostenere un regime totalitario come quello di Riyadh. Gli eccessi sauditi in Yemen cominciano a porre qualche problema perfino tra i militari statunitensi, ma non impediscono sostanziosi rifornimenti di armi all’Arabia Saudita, malgrado la crescente opposizione nel Congresso.
Ancora i sauditi sono all’origine di un altro scontro tra il Congresso e Obama, costretto a porre il veto su una legge che avrebbe consentito alle famiglie delle vittime dell’attentato dell’11 settembre di portare in giudizio l’Arabia Saudita come corresponsabile dell’eccidio.
Altrettanto problematico è il rapporto con la Turchia dopo il fallito colpo di Stato e la richiesta di Erdogan di estradare il suo avversario politico Fethullah Gulen, rifugiato negli Stati Uniti e ritenuto responsabile del tentativo golpista. Il raffreddamento dei rapporti rende più difficile ostacolare Ankara nella sua determinata lotta contro i curdi, sostenuti dagli Usa nella loro guerra all’Isis. L’intervento dell’esercito turco sul territorio iracheno ha provocato pesanti reazioni a Baghdad, con il Primo ministro al Abadi che ha addirittura ventilato una guerra se i militari turchi continuassero a operare in Iraq, mentre il Parlamento iracheno ha chiesto l’intervento dell’Onu. Non sembra la situazione migliore alla vigilia di quello che viene prospettato come il colpo mortale allo stato islamico, la liberazione di Mosul.
A questa preoccupante situazione si aggiunge l’aggravarsi dei rapporti tra Stati Uniti e Russia sulla Siria, con reciproche accuse di non tener fede ai patti e una guerra di contro informazione decisamente pesante. Dopo l’attacco aereo condotto dagli americani contro l’esercito siriano, per cui il Pentagono si è scusato, vi è stato l’attacco al convoglio umanitario attribuito ai russi, che hanno ribaltato la responsabilità su formazioni ribelli appoggiate dagli americani.
Di recente poi il sito in arabo dell’agenzia russa Sputnik ha affermato che missili partiti dalle navi russe nel Mediterraneo hanno distrutto in Siria un centro operativo di supporto ai ribelli uccidendo parecchi operatori, tra cui israeliani, sauditi, qatarioti, turchi, americani e inglesi.
Tutto sembrerebbe andare in direzione opposta all’unica possibilità di porre termine alla tragedia siriana, cioè un accordo duraturo tra Stati Uniti e Russia che dia inizio a un processo di pacificazione dell’intera regione. Obama sembra sempre più calato nella parte di un tragico apprendista stregone, né molto si può sperare da nessuno dei pretendenti alla sua successione.