A poco più di tre settimane dalle Elezioni Usa 2016, tra i presunti scandali sessuali di Donald Trump e l’opacità della campagna di Hillary Clinton, sono diversi milioni gli americani che hanno già espresso il loro voto per posta. Si stima che l’8 novembre, meglio noto come Election Day, avrà votato già il 30% degli americani: di certo non una buona notizia per Donald Trump, che da circa una ventina di giorni sta vivendo il momento più complicato dalla sua discesa nell’agone politico. Giunti a questo punto sono ancora in tanti a chiedersi: il candidato Repubblicano può rimontare? Si può recuperare nelle ultime 3 settimane di campagna elettorale, avendo a disposizione un solo dibattito televisivo, uno svantaggio che il portale del sondaggista Nate Silver, fivethirtyeight.com, attesta a 6,3% punti percentuale su scala nazionale? La risposta è sì, ovviamente. Certo bisogna essere chiari: una cosa del genere non è mai successa nella storia delle Elezioni Usa. Trump per portare a termine il proprio tentativo di rimonta deve sperare che Clinton venga investita da uno scandalo o da una situazione davvero grave. Quando Julian Assange mesi fa sottolineò di avere in serbo per Hillary del materiale scottante, documenti privati mai diffusi in grado di mettere in imbarazzo la candidata democratica, erano in tanti (noi compresi) a credere che la famosa teoria della “sorpresa d’ottobre” si sarebbe potuta davvero materializzare quest’anno giocando un ruolo cruciale nella partita per la Casa Bianca. Le rivelazioni di WikiLeaks, invece, almeno per ora hanno fatto soltanto il solletico ad Hillary: prima le dichiarazioni a porte chiuse agli investitori di Wall Street in cui Clinton dice che un politico deve avere una posizione pubblica e una privata, poi i timori dei suoi sostenitori sulla consistenza della sua candidatura e infine i dialoghi con l’amministratore delegato di Goldman Sachs Lloyd Blankfein, durante i quali l’ex Segretario di Stato confessa che le scuse a diversi leader mondiali per le relazioni poco lusinghiere degli ambasciatori statunitensi erano in realtà di facciata. Hillary in tal senso sembra chiamare in causa Silvio Berlusconi, pur non citandolo mai; parla con accento italiano di un leader che arrivò a piangere nel ricordarle:”Io sono un amico dell’America, perché dici queste cose di me?“. Ma non è il gossip politico che potrà portare Hillary a dissipare in poco più di 20 giorni tutto vantaggio accumulato fin qui. Servirebbe qualcosa di forte, qualcosa capace di far vacillare tutte le convinzioni del corpo elettorale. Uno svenimento in pubblico, ad esempio, farebbe tornare d’attualità i dubbi sul suo stato di salute; un’accusa di corruzione durante il suo mandato da Segretario di Stato aumenterebbe le convinzioni di chi crede che la Fondazione Clinton sia stata negli anni uno strumento di guadagni più che un ente benefico. Se qualcosa di simile non dovesse avvenire da qui alle prossime tre settimane, difficilmente Trump diventerà il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Del resto dal 1952 ad oggi il candidato che alla metà di ottobre era dato in testa nei sondaggi è stato quello che poi ha vinto. Ed è proprio la storia delle Elezioni Usa a lasciare pochi spiragli per una rimonta: nel 1992 ad esempio, quando Bill Clinton sfidò George Bush padre, il suo vantaggio nei sondaggi della seconda settimana di ottobre rispetto al candidato repubblicano era in doppia cifra, ma alla fine il democratico vinse con soli 6 punti di scarto sul rivale. Il modello del 1992 non è dunque il migliore per tracciare un parallelo con la situazione di Trump: in primis perché Bush senior alla fine perse quell’elezione, in secondo luogo perché oltre ai candidati dei due partiti maggiori vi era un terzo incomodo molto forte, l’indipendente Ross Perot, che rese complicato fotografare con precisione le intenzioni di voto degli americani. Quest’anno la situazione è ben più polarizzata: il Libertario Gary Johnson non sembra rappresentare una minaccia concreta né per Trump, né tanto meno per Hillary. I sostenitori del magnate newyorchese chiamati a coltivare ambizioni di rimonta rievocano spesso la larga vittoria di Reagan su Carter del 1980: all’epoca i sondaggi davano in leggerissimo vantaggio il Repubblicano, che alla fine si impose con un margine di quasi 10 punti. Non sono in pochi a credere che anche Trump sia sottostimato dalle rilevazioni demoscopiche, ma il caso del 1980 è evidentemente diverso da quello attuale: nell’unico dibattito tv andato in onda quell’anno, Reagan stracciò Carter; lo stesso non si può dire per Trump che se nel primo dibattito ha perso unanimemente nel confronto con Hillary, nel secondo ha al massimo pareggiato. C’è forse un solo esempio che può infondere fiducia a Donald Trump: risale al 1968 e vide protagonista un Democratico. Il riferimento è a Hubert Humphrey, che a metà ottobre era indietro nei sondaggi di 5 punti percentuale ma il giorno delle Elezioni pagò dal Repubblicano Richard Nixon un gap di un misero 1% su scala nazionale. Cosa accadde di tanto clamoroso da portare Humphrey a rimontare così tanto consenso in così poco tempo? Innanzitutto il Democratico riuscì nell’impresa di unificare la base di un Partito logorato da divisioni interne, e poi beneficiò di una sorpresa d’ottobre clamorosa: l’arresto dei bombardamenti americani sul Vietnam deciso dal presidente democratico Lyndon Johnson, che, accertata l’impossibilità di condurre la nazione alla vittoria, diede ascolto al sentimento comune di una popolazione statunitense che non vedeva l’ora di venire fuori dall’incubo di quella guerra. Nonostante ciò, Humphrey perse quelle Elezioni del 1968. Per questo diciamo che pensare ad una rimonta di Trump non è così assurdo, ma potrebbe non bastare. Può ancora succedere di tutto in venti giorni, ma bisogna che accada presto: anche scrivere la storia necessita del suo tempo. (Dario D’Angelo)



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