La decisione italiana di mandare in futuro 140 soldati a difendere i confini della Lettonia da possibili attacchi russi non sembra avere una valenza epocale, ma appare piuttosto come una mossa interna alla politica italiana. Così come non sembrano epocali le dichiarazioni del ministro Paolo Gentiloni, piuttosto appiattite su quelle del Segretario generale della Nato.



Jens Stoltenberg, durante la recente conferenza stampa a Roma, ha affermato che l’obiettivo della Nato è il rafforzamento del proprio sistema difensivo insieme alla continuazione del dialogo politico con la Russia. Per la verità, Stoltenberg è stato più netto di Gentiloni e ha parlato della sfida rappresentata da una Russia sempre più determinata e imprevedibile, accusandola di installare sistemi missilistici e condurre esercitazioni militari alle sue frontiere verso l’Europa. Stoltenberg ha però aggiunto che occorre evitare incidenti o errori di calcolo che portino fuori controllo la situazione. Un’ammissione della pericolosità delle decisioni prese, come sottolinea l’intervista al generale Castagnetti sul sussidiario, e che giustifica la definizione data dalla Russia all’attuale posizione della Nato: “distruttiva”.  



Anche quando parla della Siria, Stoltenberg non indica come principale problema Isis, al Qaeda o altre organizzazioni estremiste, ma la Russia “che continua a bombardare Aleppo e a sostenere il regime siriano”, malgrado “il terribile costo in vite umane e sofferenze”. Evidentemente Stoltenberg pensa che gli aerei della coalizione anti Assad gettino confetti e che i ribelli mettano fiori nei loro cannoni. Secondo il Segretario la Nato sta aiutando i suoi partner in Medio Oriente e Nord Africa a costruire le proprie capacità di difesa, “perché se loro sono più stabili, noi siamo più sicuri. E questo aiuterà anche a ridurre le migrazioni illegali”. Di cosa sta parlando Stoltenberg, dell’Iraq, della Siria, della Libia, dello Yemen, tutti Paesi messi a ferro e fuoco con il contributo di Stati membri della Nato? Non occorre essere filorussi per pensare che, nella presente situazione, Mosca sia più realista e meno ipocrita di Washington e dei suoi alleati.



Tra tre settimane negli Stati Uniti si voterà per il nuovo presidente e i rapporti con la Russia e l’atteggiamento verso la Nato sono stati tra i punti più conflittuali nel confronto tra Hillary Clinton e Donald Trump. L’impressione è che Obama voglia portare la situazione con la Russia a un punto tale da rendere molto difficile per Trump, nel caso fosse eletto, una retromarcia senza essere accusato di “collusione con il nemico”, come avvenuto già durante la campagna elettorale. Dall’altro lato, che cerchi di porre la Clinton, se eletta, in una posizione di forza verso l’antagonista Putin. Sarebbe questo un gioco molto pericoloso e che non riesce, né in Patria né fuori, a nascondere gli insuccessi della politica estera di Obama, che Hillary vorrebbe addirittura rendere più aggressiva.

All’interno della Nato, i rapporti non sono così distesi come Stoltenberg vorrebbe far credere. Il determinato, ma non imprevedibile, intervento russo in Siria ha portato alla ribalta non solo l’inefficacia della politica americana, ma anche l’ambiguo comportamento della Turchia, unico Stato del Medio Oriente membro della Nato. Lo stesso sito ufficiale della Nato definisce un rilevante cambiamento nello scenario mediorientale il riavvicinamento tra Ankara e Mosca e il progressivo raffreddamento dell’Arabia Saudita nella lotta contro l’Isis per concentrarsi nella guerra in Yemen, sostenuta in questo dagli Stati Uniti. Se Ankara si avvicina al “nemico” russo, un altro membro Nato, la Francia, sta stringendo relazioni sempre più strette con l’Arabia Saudita, a fronte del progressivo raffreddamento di quest’ultima con gli Stati Uniti. Sempre il sito Nato parla, inoltre, di una politica mediorientale attualmente guidata da Iran, Russia e Turchia, tutti Paesi non arabi, mentre l’Arabia Saudita tende a “reagire in maniera eccessiva” con la sua determinazione militare per controbilanciare una situazione a lei sfavorevole. L’Arabia Saudita come la Russia secondo Stoltenberg?

Dei 28 Stati della Nato, 22 fanno parte dell’Unione Europea e Stoltenberg, nel suo discorso, ha detto che Nato e Ue fronteggiano le stesse sfide, riferendosi immediatamente dopo alla Russia. A un giornalista che chiedeva come si configurassero i rapporti tra Nato e il sistema difensivo dell’Ue, Stoltenberg ha risposto che il rafforzamento difensivo dell’Unione Europea non può che essere ben accolto dalla Nato. Anzi, si è dichiarato molto soddisfatto del fatto che, dopo molti anni di declino nelle spese per la difesa, si stia ora assistendo a un’inversione di tendenza. Ha però sottolineato che occorre evitare duplicazioni con la Nato e che il ruolo dell’Europa è complementare a quello della Alleanza; su questo, ha affermato, è stato riassicurato dal ministro Gentiloni e da molti altri leader europei.  

Queste ultime osservazioni sono particolarmente importanti, perché esplicitano il ruolo complementare, forse meglio ancillare, dell’Ue rispetto al vero motore della Nato, gli Stati Uniti. La posizione di Stoltenberg non sorprende, per il suo ruolo e per il fatto che la Norvegia non è nell’Ue, ma stupisce che venga tranquillamente condiviso dai leader europei.

La sensazione finale è che l’establishment americano abbia rinunciato al sogno degli Stati Uniti come unica potenza globale e che stia dividendo il mondo in due aree di influenza, cercando di estendere la propria in vista dello scontro con l’antagonista. Ma questo antagonista non è la Russia, che è vista solo come un ostacolo al completo dominio statunitense sull’Europa: il vero avversario è la Cina. Si potrebbe obiettare che così gli Usa si creano due avversari, o che spingono la Russia ad allearsi con la Cina. Ciò non sembra preoccupare Washington che, sottovalutando le capacità di manovra russe, sta rieditando una sorta di “brinkmanship strategy“, portare la situazione sull’orlo della guerra per costringere l’avversario a ritirarsi, che contraddistinse la guerra fredda con l’Unione Sovietica. 

Sull’altro versante, sembra esservi la convinzione di poter arginare la Cina senza uno scontro diretto, utilizzando economia e finanza, due campi di azione funzionali con il “capitalismo comunista” al potere a Pechino. Una strategia confacente agli interessi di Wall Street e, come indicato da Stoltenberg, soddisfacente anche per l’industria degli armamenti americana, e non solo. Hillary Clinton è decisamente più adatta a questo scopo rispetto a Donald Trump, e non per le sue questioni di donne. Qui il motto è “follow the money”, a costo di far saltare il mondo intero.