Mancano meno di tre settimane alle Elezioni Usa 2016 e non si è ancora spenta l’eco delle dichiarazioni di Donald Trump nell’ultimo dibattito televisivo contro Hillary Clinton. Il fatto che il candidato Repubblicano continui a parlare di voto truccato negando di riconoscere un’eventuale vittoria dell’ex Segretario di Stato non va giù a chi vuole preservare il solido sistema democratico a stelle e strisce. Chi sostiene il tycoon newyorchese, però, tiene a precisare che un ipotetico diniego della sconfitta da parte di Trump non sarebbe poi così diverso dall’atteggiamento tenuto da Al Gore, il candidato che nel 2000 rappresentò il Partito Democratico contro George W. Bush perdendo le Elezioni Presidenziali per 537 voti nello stato della Florida. Della vicenda di Al Gore, che nel frattempo è diventato un ambientalista tanto convinto da meritare il Premio Nobel per la pace, abbiamo accennato in diverse occasioni. E sono diverse, come riportato da Rick Hampson per Usa Today, le circostanze che differenziano i sospetti di Trump dalla voglia di vederci chiaro di Al Gore. La discrepanza più evidente è che Trump si lamenta prima ancora che il gioco sia finito: dice che nelle liste dei democratici sono iscritte a votare diverse persone che non avrebbero dovuto essere in quegli elenchi; sostiene che Hillary in persona non dovrebbe essere candidata alla Casa Bianca in relazione alla vicenda delle oltre 30mila email cancellate dal suo account di posta elettronica privato ai tempi in cui era Segretario di Stato. Al Gore al contrario chiese delucidazioni soltanto a voto terminato, quando venne enunciata la frase che per diversi giorni bersagliò tutti i telegiornali del Pianeta: lui e Bush erano “too close to call”, troppo vicini per eleggere un vincitore. A questo bisogna aggiungere che nel 2000 alle normali diffidenze dettate da uno scarto ridotto si sommò un obsoleto sistema di voto che prevedeva che per votare il candidato prescelto si bucasse un pezzettino di carta facendo sì che un piccolo coriandolo si staccasse dalla scheda lasciando aperto il foro. Molti americani non capirono come votare, diverse schede vennero conteggiate bianche poiché il pezzetto di carta non si staccava del tutto; altri voti furono annullati in quanto gli elettori segnarono una croce accanto al nome del loro ticket preferito compromettendo di fatto la validità della scheda. Inoltre in Florida convivono due fusi orari, quello della costa est e quello degli Stati Uniti centrali: quando perciò alcuni notiziari annunciarono la vittoria di Al Gore nello stato e la chiusura dei seggi, in realtà in una parte della Florida si poteva ancora andare a votare. Le stime successive stabilirono che dopo l’annuncio rimasero a casa circa 15mila elettori, molti dei quali avrebbero votato il Repubblicano Bush. Tutti questi dettagli servono a capire che la richiesta di riconteggio inoltrata da Al Gore era quanto meno lecita, viste le diverse irregolarità che avevano impedito ad oltre 180mila elettori di esprimere la propria preferenza. Di diverso, però, rispetto alla querelle Trump-Clinton, c’è sopratutto l’atteggiamento di Al Gore rispetto a quello del magnate del Gop. Quando il 12 dicembre, 36 giorni dopo le Elezioni, con un popolo statunitense che non ne poteva più di ricorsi e controricorsi sotto Natale, la Corte Suprema sancì con un verdetto di 5 voti a 4 che il riconteggio manuale di tutte le schede della Florida dovesse essere interrotto fu Al Gore in persona a concedere la vittoria al presidente eletto. Al contrario Trump non sembra affatto intenzionato ad attuare un gesto di fair play se è vero che il giorno dopo il dibattito, durante un comizio in Ohio, ha detto ad una folla di sostenitori che “accetterò totalmente i risultati di questa storica e grande elezione, se vinco io”. Assomiglia all’atteggiamento di un bambino il modo di fare del milionario, di chi è disposto a tutto pur di non perdere, anche ad intraprendere battaglie legali allungando i tempi di insediamento del futuro Presidente Usa. Lo stesso Barack Obama sembra essersi stancato delle pericolose affermazioni di Trump e proprio in un comizio per Hillary, guarda caso in Florida, proclama che le parole del tycoon non sono più una “semplice bugia”, non sono più un “argomento del quale ridere”. In gioco, spiega Obama, c’è la democrazia degli Stati Uniti e se il sistema è a rischio è a detta dell’inquilino della Casa Bianca anche colpa di quei Repubblicani che dopo aver passato una vita ad idolatrare un presidente come Ronald Reagan non hanno avuto l’accortezza di capire fin da subito che The Donald non era individuo adatto a diventare Presidente. Trovandosi nel Sunshine State, Obama ha preso di mira anche il senatore del posto Marco Rubio, già candidato alle Primarie Repubblicane di quest’anno, che dopo aver a lungo attaccato Trump è oggi al suo fianco contro Hillary Clinton; il Presidente sostiene che Rubio è il classico esempio di chi “farà qualsiasi cosa, dirà qualsiasi cosa e fingerà di essere chicchessia pur di essere eletto”. In contrasto con l’atteggiamento di silenziosa sponda di gran parte dell’establishment del Partito Repubblicano c’è John McCain, uno dei dirigenti che ha detto basta a Donald Trump dopo la diffusione del video con dichiarazioni sessiste risalente al 2005. Il veterano della guerra del Vietnam in una nota chiarisce che non sa chi vincerà le Elezioni di quest’anno ma che in tutte quelle del passato il candidato che ha perso ha chiamato il vincitore “mio Presidente”. McCain spiega che non si tratta della “maniera Repubblicana o Democratica”, ma della “maniera americana”. Servirà tutto il carisma dei saggi d’America, e dei big del Partito Repubblicano in primis, per evitare che Trump fomenti la rabbia dei suoi sostenitori in caso di sconfitta. Se il nuovo Presidente arriverà insieme all’albero di Natale lo scopriremo solo vivendo. (Dario D’Angelo)