L’Onu lancia l’allarme sulla situazione umanitaria nella zona di Mosul dove i civili sarebbero vittima di atrocità per opera dello stato islamico. In un caso tre donne e tre bambini sarebbero state uccise da alcuni proiettili dopo essere state trascinate in una marcia forzata tra un villaggio e l’altro. Mentre altri 15 civili sarebbero stati uccisi e i loro corpi gettati in un fiume nel tentativo di seminare il terrore. Ne abbiamo parlato con Camille Eid, intellettuale libanese residente in Italia e giornalista di Avvenire.



Quanto sono fondate le notizie diffuse dall’Onu sulla situazione dei civili a Mosul?

Non possiamo certo dare per scontato che quanti sono rimasti a Mosul in questi due anni e mezzo siano favorevoli a vivere sotto l’ombra del Califfato. Nessuno è in grado di verificare o accertare che cosa stia effettivamente avvenendo. Da siti internet ben informati emergono però notizie su forme di resistenza nella popolazione civile. Alcuni per esempio scrivono sui muri la lettera M, l’iniziale di “Muqawama” resistenza, analogamente a N di “Nasara”, la lettera utilizzata dall’Isis per marcare le case dei cristiani.



L’Isis come reagisce a queste forme di resistenza?

Ancora prima dell’inizio dell’offensiva, l’Isis aveva ucciso diversi civili accusandoli di avere utilizzato apparecchi elettronici o satellitari per indicare all’aviazione della coalizione i luoghi da bombardare. Ogni volta che in questi mesi è stato ucciso un leader dell’Isis, si è compreso che all’interno della sua cerchia c’erano una o più spie. Il Califfato ha quindi cercato di individuarle attraverso delle retate nelle abitazioni.

Com’è invece la situazione di Mosul dal punto di vista strategico?

Nei primi giorni dell’offensiva il piano per liberare la città sembrava funzionare a meraviglia. Il modo in cui sono distribuite le forze e chi deve attaccare da ogni singola postazione, tutto sembrava una macchina ben oliata. Per una volta sembrava che si fossero riusciti a mettere d’accordo i peshmerga curdi, l’esercito federale irakeno, la polizia e i singoli corpi speciali. Ognuno sapeva nel dettaglio che cosa doveva fare, dove attaccare e le rotte delle incursioni. I curdi hanno persino dato all’esercito irakeno il permesso per utilizzare i territori del Kurdistan per attaccare non solo da sud, ma anche da est. La regia statunitense sembrava essere riuscita a cucire questo accordo tra curdi e irakeni.



Perché dice “sembrava”?

Perché presto sono emerse le prime contraddizioni. Per esempio i curdi hanno affermato: “Noi avanzeremo da est liberando la piana di Ninive, ma non entreremo a Mosul”. Quindi le fonti curde hanno parlato di un accordo con il governo di Baghdad sull’amministrazione comune della città di Mosul. Sorge spontanea la domanda sul perché i curdi amministreranno una città alla cui liberazione non hanno partecipato.

Qual è invece la strategia dell’Isis?

La vera domanda che molti si pongono è se l’Isis resisterà o scapperà. Prima dell’attacco molti leader hanno lasciato Mosul per rifugiarsi chi ha Raqqa e chi in altre città siriane. Tra gli altri c’è anche lo stesso al-Baghdadi, su consiglio del suo responsabile per la sicurezza.

 

In questa fase c’è il rischio che l’Isis intensifichi gli attentati all’estero?

Sì, la vendetta si gioca a 360 gradi. Del resto la mappa sulla presenza dell’Isis in Iraq si configura a macchia di leopardo. Anche per questo motivo la vendetta non tarderà ad arrivare: eventuali attentati in Europa o altrove sono più che attendibili, e si potranno verificare in ogni momento. L’Isis non si vendicherà soltanto contro gli irakeni o contro i curdi. Dal punto di vista del califfato, dietro a tutti i gruppi che lo stanno attaccando ci sono sempre l’Occidente, gli infedeli e tutta la retorica che conosciamo.

 

(Pietro Vernizzi)