-Non è difficile appassionarsi di Elezioni Usa: quelle del 2016, ad esempio, hanno fornito uno degli spettacoli più entusiasmanti degli ultimi anni. Tanto Hillary Clinton, quanto Donald Trump, in campagna elettorale hanno mostrato punti deboli e punti di forza, colpi di genio e crolli improvvisi, ma soprattutto non se le sono mai mandate a dire. Gli americani sono abituati a pensare alla politica in maniera molto più “spiccia” rispetto a noi italiani: certo, votare Democratico o Repubblicano non è la stessa cosa. I fedelissimi di entrambi i Partiti sono sostenitori accaniti della supremazia intellettuale del loro schieramento, ma la contrapposizione che coinvolge le due fazioni spesso si riduce ad uno scontro di tipo personale. In questo caso è stato Hillary contro Trump, nel 1960 è stato Kennedy-Nixon: non sempre ricordiamo il nome delle squadre, più spesso i giocatori che si sono affrontati. E il fascino della politica a stelle e strisce contagia non solo gli appassionati come voi (e noi), ma anche chi tiene in mano le redini di quella italiana. L’esempio sotto gli occhi di tutti è quello di Matteo Renzi, il Presidente del Consiglio reduce dalla cena Italia-Usa alla Casa Bianca con Barack Obama, che non ha mai fatto mistero di essere un fan dell’attuale Presidente americano. Del resto entrambi appartengono al Partito Democratico, e quello italiano (soprattutto negli ultimi tempi) sembra essere il prolungamento di quello statunitense piuttosto che figlio della tradizione comunista e di sinistra di quella del Belpaese. Non è un caso, dunque, che il premier italiano interpellato sulle sue preferenze in fatto di Elezioni Usa 2016 abbia espresso un’indicazione abbastanza netta per Hillary Clinton, sottolineando che la Democratica è probabilmente la persona più adatta ad interpretare il ruolo di ‘commander in chief’ vista la sua storia e le sue competenze. Il legame tra Renzi e il partito dell’Asinello americano è stato confermato anche a margine della recente cena a Washington, con un incontro con lo staff elettorale di Hillary servito a scambiarsi delle impressioni sulla corsa alla Casa Bianca contro Trump. La predilezione per l’America di Renzi, si legge infine nella scelta di affidarsi al “guru” statunitense Jim Messina, l’uomo che guidò Barack Obama nella vittoriosa campagna elettorale del 2012, per cercare di convincere gli italiani a votare “Sì” al prossimo referendum: più che una passione, quella del Matteo di Rignano sull’Arno per tutto ciò che abbia un tocco di USA sembra una mania. Ma gli altri protagonisti della politica italiana? Che idea si sono fatti di questa campagna? Silvio Berlusconi, che agli americani invidia soprattutto il sistema bipolare basato sull’alternanza tra Repubblicani e Democratici, vorrebbe tanto importare in Italia il sistema del Presidenzialismo e dell’elezione diretta dell’inquilino del Quirinale. Difficile sapere per chi faccia il tifo oggi il Cavaliere tra Hillary e Trump: tempo fa disse di avere una profonda stima della “signora Clinton” ritenendola la scelta migliore per gli Usa; le recenti rivelazioni di WikiLeaks, però, da cui emergono i pareri poco lusinghieri dell’ex Segretario di Stato nei suoi confronti e le prese in giro rispetto al dispiacere del Silvio nazionale per le relazioni che l’ambasciatore americano a Roma faceva di lui nel 2011 (‘Perché dite queste cose di me?’) potrebbero aver minato il rapporto tra i due. D’altra parte il fatto di essere associato in chiave negativa alla figura di Donald Trump, come lui imprenditore prestato alla politica, non lo soddisfa. Berlusconi si vede diverso dal tycoon in tutto e per tutto: a partire dal fatto di aver creato le sue fortune economiche da solo senza averle ereditate come Trump da un padre miliardario, fino allo stile che caratterizza il magnate newyorchese, troppo volgare e misogino per i gusti del Cav, che pure è solleticato dall’idea che milioni di americani sostengano un candidato descritto come il suo sosia. Lo stile-Trump piace invece a Salvini, nonostante il tycoon in un’intervista all’Hollywood Reporter abbia detto che non avrebbe voluto incontrare il leader leghista, come invece ha fatto in aprile, quando l’esponente padano si era spinto fino a Philadelphia, in Pennsylvania, per stringergli la mano, farsi immortalare in qualche fotografia insieme a lui e presentarsi come versione italiana delle battaglie anti-immigrazione e populiste di Trump. Più tiepido il Movimento Cinque Stelle, che tramite il suo leader carismatico Beppe Grillo ad aprile disse che “forse”, in fin dei conti, questo Trump era ‘meno peggio’ di Hillary. E sinceramente non ci attendevamo nulla di diverso da un uomo che dell’opposizione all’establishment ha fatto il suo cavallo di battaglia. Sebbene non abbia messo il naso nelle faccende d’oltreoceano, forse perché troppo impegnato a rivendicare il ruolo di una minoranza dem in balia di Renzi, pensiamo che Pierluigi Bersani abbia vissuto con simpatia il tentativo di scalata di Bernie Sanders, il senatore del Vermont così tanto di sinistra per gli standard americani da essersi iscritto nel Partito Democratico giusto in tempo per gareggiare alle Primarie. La verità, preferenze a parte, è che le Elezioni Usa appassionano tutti: politici, osservatori occasionali, fan della primissima ora. Nella civiltà che più di ogni altra detta le mode e i tempi del vivere alla maniera occidentale, capire chi vincerà tra Hillary Clinton e Donald Trump significa portarsi avanti, comprendere da che parte soffia il vento. Se la moderazione di Clinton avrà la meglio sulla rabbia di Trump, se la maniacalità di Hillary prevarrà sul populismo di Donald, è ancora da vedere: di certo c’è che 4 anni senza politica americana ci sembrano già un’eternità. Che sia colpa della nostra classe politica? (Dario D’Angelo)