A meno che qualcosa non cambi da qui ai prossimi 10 giorni, le Elezioni Usa 2016 per il partito Repubblicano saranno quelle dei grandi rimpianti. Cosa sarebbe successo se..? Il primo se non può che essere: se a sfidare Hillary Clinton non fosse stato Donald Trump. All’inizio della storia, quando ancora Trump era lontano dallo sbaragliare tutti i suoi avversari alle Primarie del Grand Old Party erano in pochi a puntare su di lui. Non era la prima volta che un candidato fuori dagli schemi collezionava molti consensi nei sondaggi. L’indole di Trump, poi, faceva presagire che da un momento all’altro, o meglio, da una sparata all’altra, il suo consenso si sarebbe eroso col passare delle settimane. Invece sono passati dei mesi e la situazione è precipitata: Jeb Bush, il rampollo che avrebbe dovuto far rifiorire la dinastia dei Bush alla Casa Bianca, ha tradito prima le aspettative di una famiglia e poi di un Partito intero. Gli altri candidati hanno fallito per diverse motivazioni: Marco Rubio era troppo acerbo, John Kasich troppo moderato, Ted Cruz troppo di destra. Nessuno di loro ha capito in tempo che era necessario fare un passo di fianco, scegliere il candidato che più aveva possibilità di contrastare Trump e unire le forze, per scongiurare la catastrofe. I saggi del Partito hanno a lungo provato a contrastare il tycoon di New York chiedendo al proprio elettorato di non farsi ammaliare dalle attraenti melodie suonate dall’imprenditore prestato alla politica, ma non è bastato. Alla fine Trump ha avuto strada spianata e il Partito si è arroccato su una posizione ambigua, su un sostegno pronunciato a voce bassa: un atteggiamento che non ha portato voti a Trump e allo stesso tempo non ha salvato il Gop e i suoi interpreti dal ricevere critiche per l’alto tasso d’ambiguità mostrato in questa campagna elettorale. E chi spera di chiudere un occhio su queste Elezioni, chi auspica che ad essere sacrificati siano “solo” i prossimi 4 anni, non mette in conto che questa tornata produrrà delle conseguenze che difficilmente verranno smaltite prima del 2020. Ad essere presi di mira dallo schieramento Democratico sono e saranno soprattutto gli aspiranti candidati alla Casa Bianca del Gop nelle Presidenziali che si terranno fra 4 anni. A subire gli attacchi dei sostenitori di Hillary Clinton sarà Marco Rubio, il senatore della Florida che, dopo aver attaccato pesantemente Trump, adesso è in corsa per riconfermare il suo seggio e ha deciso di tenere fede alla promessa fatta durante le primarie di appoggiare il candidato Repubblicano. Non sarà esente da critiche neanche Paul Ryan, lo speaker della Camera dei Rappresentanti e dunque il Repubblicano più alto in grado al Congresso, colui che dopo aver manifestato a Trump un tiepido consenso per ragion di partito altrettanto tiepidamente, dopo la diffusione del video del 2005 in cui si vedeva il tycoon parlare delle donne in maniera sessista, ha fatto sapere di volersene tirare fuori: niente più comizi a suo sostegno, niente più difese dagli attacchi avversari e della stampa. E per quanto non si possa dire che uno dei pregi maggiori di Trump sia la lungimiranza politica, gli va dato atto quanto meno di aver compreso prima degli altri che per Rubio, Ryan, e lui ha aggiunto Ted Cruz, la strada per la Casa Bianca fra 4 anni sarà tutto tranne che in discesa. Nel ribadire che per i Repubblicani quelle di quest’anno assomigliano ad una sorta di “ora o mai più”, Trump dimostra di aver compreso la portata dell’impatto che ha avuto la sua discesa in campo nella politica americana. Nell’Elezione del rimpianto, però, c’è anche chi prova a salvare il salvabile fino alla fine, fino a quando i numeri non sanciranno magari la sconfitta più pesante della storia. Trattasi di Mike Pence, il candidato vicepresidente di Trump, che nell’ultimo comizio in Nevada ha rivolto un appello a tutto il Partito Repubblicano, dirigenti ed elettori, ricordandogli che se c’è mai stato un momento in cui le divisioni debbono essere messe da parte è proprio questo. Pence ha provato a riallacciare il dialogo con Joe Heck, il candidato repubblicano al senato del Nevada, che dopo aver visto il video sessista di Trump si è indignato talmente tanto da non voler più dire se voterà per il candidato alla presidenza del suo partito; ha detto che i Repubblicani dello stato dovrebbero votare tutti per lui e poi unirsi al team Trump-Pence. Non sappiamo se quello di Pence resterà un inutile esercizio di diplomazia, ma fa quanto meno riflettere l’accoglienza che il quartier generale della Camera di Commercio statunitense ha riservato qualche giorno fa a Mitt Romney, il candidato del Gop alla Casa Bianca nel 2012. All’ex governatore del Massachussetts, che da sempre si è opposto a Trump senza mezzi termini, la platea ha concesso una standing ovation: segnale evidente di come a mancare sia soprattutto la normalità, la pacatezza, la lealtà nello scontro, tutti elementi spariti dalla politica americana in concomitanza con l’avvento di Trump. Nell’Elezione dei rimpianti, così come nella vita, è inutile domandarsi cosa sarebbe stato se…Eppure è inevitabile farlo, chiedersi come sarebbe finita se le cose fossero andata in maniera diversa. Ci danno una mano i sondaggi, secondo cui se ad essere candidato contro Hillary fosse stato Pence, adesso la battaglia sarebbe molto più serrata di quanto invece non lo è con Trump. Ma lo dicevamo poche righe fa: piangere sul latte versato non ha senso. Il Partito Repubblicano avrebbe dovuto pensarci mesi fa: più che le Elezioni dei rimpianti, quelle del 2016 verranno ricordate come quelle dei rimorsi. (Dario D’Angelo)