Il referendum ungherese sulle quote di immigrazione imposte da Bruxelles non ha raggiunto il quorum del 50% più un voto, fermandosi a poco più del 43% degli aventi diritto al voto. Ciononostante, il premier Viktor Orban ha dichiarato un successo il risultato del referendum, in quanto il 98% dei voti validi, cioè circa il 40% degli elettori, si è espresso per il no alle quote. Ovviamente molto diverso il parere delle opposizioni, sia di sinistra che di destra, e il leader del partito di estrema destra ha chiesto le dimissioni di Orban. Al di là delle diatribe interne, questo risultato non è proprio un successo per il governo, che sul referendum ha investito parecchio, anche con una pesante e costosa campagna mediatica. Tuttavia, è difficile anche sostenere che rappresenti una totale sconfessione del governo, a meno di credere che quel 66% di non votanti fossero tutti per il sì, cosa piuttosto improbabile.  



Come quasi sempre per i referendum, è importante vedere come è stato formulato il quesito, che in questo caso recitava: “Volete che l’Unione Europea possa decretare il ricollocamento obbligatorio in Ungheria di cittadini non ungheresi senza l’approvazione del Parlamento?” Questa formulazione è stata accusata di collegare strumentalmente due problemi distinti, cioè la sovranità nazionale e l’immigrazione, entrambi spinosi per l’elettorato ungherese. E’ ragionevole pensare che chi ha votato no al referendum abbia tenuto in conto, sia pure con diversi livelli di combinazione, entrambi i problemi. Più difficile analizzare l’astensione, ma è probabile che qui abbia soprattutto giocato la protesta contro il governo, oltre che un atteggiamento più positivo verso l’immigrazione. Sarebbe comunque una forzatura ritenere l’astensione una prova di fiducia nell’Ue e Orban ha buon gioco nell’evidenziare che i voti per il no a questo referendum superano quelli per il sì all’adesione all’Ue nel 2003; in quell’occasione i votanti furono circa il 46%.



Ora c’è chi si aspetta rappresaglie da parte di Bruxelles, magari ricordando l’uscita del ministro degli Esteri lussemburghese che chiedeva la sospensione dell’Ungheria dall’Unione, richiesta poi smentita dal suo stesso premier. Peraltro non sono infrequenti le critiche all’Ungheria di voler fare di testa propria, pur essendo tra i maggiori beneficiari degli aiuti comunitari, insieme alle accuse di nazionalismo antieuropeo. Critiche spesso ampliate agli altri Stati del cosiddetto Gruppo di Visegrad, cioè Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. 

A Bruxelles dovrebbero forse tener presente che questi Paesi hanno riconquistato la loro indipendenza dall’oppressione sovietica solo una trentina di anni fa e che temono più di altri le ingerenze di altri “Grandi Fratelli”. D’altro canto, anche gli inglesi, pur non avendo mai persa la loro indipendenza, hanno votato per uscire dall’abbraccio dell’Unione. Non solo; il Regno Unito ha stretto un accordo con la Francia per un muro anti immigrati a Calais. E  Orban si è esplicitamente riferito all’esempio tedesco nell’indicare, come possibile conseguenza del referendum, l’introduzione nella Costituzione ungherese della salvaguardia delle prerogative del Parlamento nazionale.  



Più in particolare sul problema immigrazione, il governo di Orban ha assunto un comportamento senza dubbio duro, con la costruzione di reticolati di sbarramento alle sue frontiere e con interventi pesanti della polizia contro i migranti. Occorre ricordare, però, che nel 2015 hanno attraversato l’Ungheria, diretti verso altri Stati, più di 400mila migranti, un numero che può aver causato qualche problema in un Paese di neppure 10 milioni di abitanti e con sotto gli occhi l’esempio greco. Il governo ungherese si dice disposto ad affrontare il problema dei migranti e dei rifugiati, fornendo aiuti finanziari e umanitari nei Paesi di origine o nei campi in cui sono ospitati, ma vuole che siano gli ungheresi a decidere chi ospitare in casa propria, e non Bruxelles. Quest’ultima sembra piuttosto irritata dal continuo riferimento di Budapest alle proprie fondamenta cristiane, che sente minacciate da un’immigrazione di massa musulmana, e da qui l’accusa di sciovinismo.

Per quanto riguarda le quote obbligatorie di ricollocamento, il numero di rifugiati attribuiti all’Ungheria è decisamente basso, 1.294, fornendo la base per accusare Orban di aver strumentalizzato il problema per fini interni, utilizzando slogan populisti quando non xenofobi. Le quote di rifugiati da ricollocare obbligatoriamente erano state fissate dalla Commissione Europea nel settembre 2015, a maggioranza qualificata e non come di norma all’unanimità, proprio per l’opposizione di diversi Stati dell’Est Europa. A distanza di un anno, nel suo rapporto di questo settembre, la Commissione parla di 98.255 rifugiati, 63.302 dalla Grecia e 34.953 dall’Italia, per i quali ci sono stati impegni al ricollocamento da parte dei vari Paesi per soli 13.585 profughi. Di questi solo 5.651sono stati effettivamente ricollocati, 4.445 dalla Grecia e 1.196 dall’Italia.

Di fronte a simili risultati, non credo nessuno possa montare in cattedra e anche il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, che si è dichiarato contento dell’esito negativo del referendum, farebbe bene a rivolgersi a qualcun altro più in grado, rispetto all’Ungheria, di risolvere il problema.

Intanto, il dramma dei profughi continua.