WADI KHANZA, poche tende poste sul versante di una collina. Panorama mozzafiato. Le alture del Golan alle spalle. Questo territorio si trova nel Libano del sud vicino al confine con la Siria e Israele (nome, quest’ultimo, che non è neppure ammesso pronunciare, si dice il nemico e tutti capiscono). E’ la cosiddetta zona blu controllata dall’Onu. La storia del Libano è legata da sempre ad una storia di profughi: il paese raggiunse l’indipendenza nel 1943 e, già nel ’48, il neonato stato di Israele provocò un’enorme ondata di profughi che si riversò in Libano.



Oggi il paese fa i conti anche con i profughi siriani che fuggono dalla guerra e si accampano dove possono. Il governo non dà loro la possibilità di costruire dimore di mattoni né di avere un lavoro stabile. Ormai il loro numero raggiunge quasi la metà degli abitanti del paese (circa 2 milioni). Dall’inizio dell’esodo circa l’80% di loro ha potuto comprare o affittare casa, solo il 20%, i più poveri, è sparso sul territorio vicino ai confini e vive in tenda.



A Wadi Khanza le famiglie sono circa 10 per un totale di 80 persone, tutti sunniti. Provengono da Raqqa, oggi considerata la capitale del califfato. Hanno alzato le loro tende su terreni privati per i quali, in genere, viene richiesto un affitto (una cifra che si aggira sui 100 euro all’anno per tenda), che può essere altissimo per chi non ha nulla e non può lavorare. A volte possono occupare il terreno gratuitamente ma, più spesso, i rifugiati ripagano il proprietario svolgendo dei lavori nei suoi campi. Ma comunque finisce che le famiglie si indebitano e arrivano a vendere sulla parola le loro proprietà in Siria.



In questi giorni in questo piccolo campo è partito un progetto finanziato dalla provincia di Trento, tramite la ong Edus, e realizzato con l’aiuto della fondazione Avsi, che prevede di insegnare alle donne del campo a fabbricare i tappeti (lavoro artigianale tradizionale). I telai sono già montati e le ragazze (sono tutte giovani), circondate da una marea di figli e fratellini, si adoperano tra fili colorati e nodini, ad imparare un’arte che prima o poi forse le aiuterà a guadagnare. I bambini del campo dai 6 ai 13 anni vanno a scuola. In Libano le scuole pubbliche sono piuttosto disastrate. I libanesi, se possono, iscrivono i loro figli alle scuole private che garantiscono una migliore qualità d’insegnamento ma costano molto (fino a 10.000 euro all’anno).

Dallo scorso anno il governo, nel tentativo di rilanciare le sue scuole, ha aperto le iscrizioni anche ai bambini dei rifugiati (in una percentuale di 50% libanesi e 50% profughi) che quindi con la loro presenza stanno contribuendo a mettere in moto un rinnovamento nell’organizzazione scolastica del paese. Allo stesso tempo ciò comporta una difficoltà nell’organizzare turni e programmi. In Libano, oltre all’arabo, i ragazzi studiano inglese e francese, gli studenti siriani si trovano quindi non allineati alle competenze acquisite dai loro coetanei e per questo spesso hanno il turno di pomeriggio.

Lì vicino Avsi si è impegnata ad aiutare la scuola pubblica locale di Qlayaa che ora ha delle belle aule riscaldate e una piccola biblioteca. Quest’anno gli iscritti sono 200. Studiano assieme ragazzi libanesi, iracheni e siriani che, pur vivendo in tenda, ogni mattina vestono orgogliosamente la maglietta della scuola e si ritrovano in un luogo al quale sentono di appartenere.

PIANA DI MARJAYOUN. Sempre nella zona blu vicino al confine con Israele, si trova la piana di  Marjayoun. Qui si c’è il campo più esteso di profughi siriani. Vivono qui dal 2011. Il campo è chiuso, non è più permesso aggiungere tende. La fondazione Avsi riempie le cisterne di acqua potabile e fornisce i buoni carburante per le poche auto e il riscaldamento. Vista la quantità di bambini ha anche avviato un progetto di sostegno a distanza e una serie di attività pre-scolare per i bambini dai 3 ai 6 anni. Sono 220 famiglie per un totale di 1100 persone di cui 550 bambini. Vengono quasi tutti da Idleb (n/o della Siria) e sono sunniti.

Il campo è diviso in zone e ogni zona ha un capo. Gli uomini lavorano saltuariamente come bassa manovalanza nelle costruzioni e aspettano la stagione della raccolta delle olive per guadagnare qualcosa. Sono 118 padri di famiglia e, se interrogati, dicono che sperano nella pace e di poter tornare anche se molti di loro hanno fatto richiesta per un visto per poter emigrare (soprattutto in Canada). Lo scorso anno gli uomini di questo campo insieme ad altri sono stati coinvolti da AVSI nel progetto Cash4work.

A poca distanza da lì la fondazione è riuscita a farsi affidare dal governo una porzione della foresta abbandonata di Ebel Saqi che stava soffocando. In cambio dei tronchi degli alberi abbattuti, si sono organizzati turni di lavoro, in modo che tutti potessero avere la loro opportunità di guadagno. Ora la foresta è ripulita ed è bellissima tanto che Avsi sta trattando per ripulire un’altra porzione. Inoltre tutta la legna di piccola pezzatura è servita per riscaldare le tende lo scorso inverno. Poco lontano, sul mare, si trova Saida, l’antica città di Sidona.

SAIDA. Questa è una città complicata, è sunnita con una presenza silente di Isis. Subito dietro l’agglomerato urbano, che si sviluppa sulla costa, si è radicato il più grande campo profughi palestinese del paese. E’ un campo molto agitato, ci vivono 60/70 mila persone che sono lì dal ’48 e che vivono di sovvenzioni. Il campo è interdetto a chiunque non abbia uno specifico permesso. Non entra nessuno, ne’ esercito ne’ polizia, all’interno ci sono scontri giornalieri tra fazioni del mondo palestinese e c’è chi si attende prima o poi lo scoppio di un vero conflitto interno. Quasi a vegliare su questa giungla violenta c’è la Collina della Madonna dell’Attesa. Si chiama così perché è stata riconosciuta come il luogo dove Maria ha atteso Gesù mentre scendeva a Sidona. Oggi c’è una chiesa e una grotta miracolosa e molto suggestiva che risale al tempo di Gesù.

Da poco la chiesa ha riconosciuto questo come un luogo mariano al pari di Fatima e Lourdes. Mentre questo luogo sembra pacificare gli animi e stimolare un desiderio di pace e di dialogo ci sono altri luoghi che sembrano fomentare la divisione e la violenza. Uno di questi è la prigione di Kiam sempre nel sud del paese. Antica roccaforte, fu adattata dagli israeliani a prigione per detenuti della resistenza libanese. Oggi un ex detenuto fa da guida a quel che resta, dopo che gli israeliani abbandonando il paese l’hanno quasi rasa al suolo, e al piccolo museo. Egli racconta le torture e le brutalità che lui stesso ha subito e il suo ricordo è talmente vivo che insiste per rinchiudere qualche visitatore nelle celle per poi battere con forza la porta di ferro provocando un rumore assordante per fargli provare anche solo per un attimo cosa hanno subito i detenuti.

Questi racconti creano naturalmente grande emozione e coinvolgimento ma presto affiora il dubbio che continuare a ricordare gli orrori e la violenza non fa che alimentare l’odio e allontanare una prospettiva di dialogo. Il Libano è un miracolo dice Marco Perini, responsabile di Avsi in questo paese da 9 anni. Una terra che vive da sempre, a fasi alterne, sul filo di un misterioso e fragile equilibrio di fedi e etnie diverse basato su un apparente impossibile dialogo. Ma se uno non crede nei miracoli cosa può pensare? Forse che l’umanità è straordinaria, capace di violenze e bellezze infinite, capace di alzare muri e distruggere intere città come di piantare fiori all’interno di un campo profughi o creare luoghi come la Valle dei Santi soave e spirituale. Forse è proprio l’aspetto spirituale così prepotente di questo insieme di fedi che confonde e lascia stupefatto chi visita questo paese.

L’Occidente ritiene che non vi sia bisogno di Dio, scrive in modo provocatorio il giurista Francesco Carnelutti nel libro di Guido Piovene Processo dell’Islam alla civiltà occidentale (Mondadori 2001), se è così capire diventa veramente difficile. Ben venga allora il sogno di Marco Perini di costruire un centro stabile che sappia modularsi sulle diverse esigenze delle persone, che diventi un punto di riferimento per chi soffre al di la di ogni barriera.