Devono essere per forza di cose delle Elezioni Usa maledette per i Repubblicani. Non si spiega altrimenti come sia possibile che anche dopo la vittoria di Mike Pence su Tim Kaine nel dibattito tra candidati alla vicepresidenza sia proprio il Gop ad avere i maggiori problemi. Sì, perché come abbiamo chiarito negli ultimi giorni, il governatore dell’Indiana ha fatto meglio del suo rivale davanti alle telecamere, ha fatto sfoggio di maggiore autocontrollo, ha resistito alle provocazioni: tutto perfetto se si fosse trattato di un confronto tra due politici candidati alla Casa Bianca. Il punto principale della questione è che Pence si è reso protagonista di un’ottima performance “personale”, ma non ha rappresentato Donald Trump. Le vedute dei due non corrispondono soprattutto in fatto di politica estera e l’elettorato repubblicano, così come l’opinione pubblica americana, non può non essere disorientata da questo atteggiamento. Quale sarà la politica estera dei repubblicani in caso di vittoria contro Hillary Clinton? Chi detterà la linea? Sarà Donald Trump a scegliere di volta in volta la strada giusta da intraprendere per il Paese? O sarà un team collaudato e con un’esperienza di certo superiore a quella del tycoon ad indirizzare le scelte dell’amministrazione? Se lo chiedono in tanti in America, e se lo chiedono soprattutto gli elettori del Partito Repubblicano: sia quelli che avevano deciso di votare Trump, sia quelli che avevano deciso di allontanarsi dal Grand Old Party proprio poiché rappresentato dal magnate newyorchese. Il caso emblematico delle diversità di vedute fra Pence e Trump riguarda la Russia: mentre Trump in più di un’occasione non ha fatto mistero di apprezzare Vladimir Putin e le sue capacità di leadership, il candidato alla vicepresidenza al contrario lo ha definito un leader “piccolo e bullo”. Pence, che ha ripetuto per due volte le sue accuse nei confronti dell’inquilino del Cremlino, non si è limitato a dare giudizi personali su Putin. Il governatore dell’Indiana ha detto che le recenti provocazioni e ingerenze russe nei confronti delle nazioni vicine (in particolare verso quelle baltiche, ndr) necessitano di fare i conti con la “forza americana”. Pence ha parlato poi dell’intricata situazione siriana, dove la Russia è una delle protagoniste principali del conflitto visto il suo sostegno al presidente Bashar al Assad. Il running mate repubblicano ha espresso la volontà di creare “zone sicure” per i civili siriani, nonché la necessità di farsi trovare pronti ad usare la forza contro le truppe siriane se l’Orso russo continuerà ad essere coinvolto in quelle che Pence ha definito “barbare azioni” ad Aleppo. Parole che non possono essere in nessun modo conciliate con quelle pronunciate qualche tempo fa da Donald Trump, che in un’intervista al Guardian dichiarò che Assad era cattivo, ma non si poteva sapere con certezza se i ribelli sostenuti dagli Usa fossero realmente migliori rispetto al presidente siriano. A maggio Trump aveva fatto capire che se fosse stato presidente gli Usa si sarebbero chiamati fuori dalla situazione siriana; dichiarazione d’intenti che non coincide con i piani illustrati da Pence, che non solo ha “minacciato” la Russia per il suo ruolo in Siria, ma anche proposto di schierare nuovamente lo scudo di difesa antimissile tra Polonia e Repubblica Ceca che l’amministrazione Obama ha tolto nel 2009. Qual è allora la verità? Per chi voteranno gli elettori che alla fine si decideranno a scegliere Trump? Per un esecutivo interventista ed ostile alla Russia? O per un governo che attuerà un progressivo disimpegno militare all’estero? Anche i veterani del Partito Repubblicano faticano a ricordare un precedente così evidente in cui un vice ha smentito il suo presidente. Bisogna tornare indietro di circa 16 anni per trovare qualcosa di lontanamente simile: all’epoca fu Dick Cheney, aspirante running mate di George W. Bush a dire, in opposizione a quello che poi divenne il presidente americano numero 43, che i matrimoni gay dovevano essere competenza dei singoli Stati e non potevano essere vietati dalle leggi federali. Ma c’era una ragione di natura personale dietro quella presa di distanza: la figlia di Cheney, Mary, è omosessuale. Secondo Matthew Waxman, che ha lavorato al Dipartimento di Stato e al Pentagono nell’epoca di George Bush padre, le parole di Pence sono la dimostrazione che una futura amministrazione Trump sarebbe incapace di comunicare chiaramente con alleati e avversari. I conservatori duri e puri, dopo il dibattito tra Pence e Kaine, sono stati solleticati dall’idea che Trump possa essere un candidato di facciata, ma che poi sarà il governatore dell’Indiana in carica a determinare le scelte cruciali di politica estera: hanno avuto un sussulto d’orgoglio nel sentire parlare di Putin e della Russia come di un’entità da contrastare, hanno pensato che forse non sarebbe stata una tragedia pensare a Donald Trump alla Casa Bianca. A nostro avviso, però, si sbagliano. Non c’è un esempio nella storia americana di un vice che sovrasta il suo presidente e non c’è soggetto peggiore di Trump per pensare di iniziare adesso. The Donald è un imprenditore milionario: nelle sue aziende ha sempre fatto di testa sua, è abituato a dare ordini e se si è candidato alla guida del Paese è perché ha intenzione di farlo anche alla Casa Bianca. Non attendiamoci, dunque, passi indietro di Trump sulle questioni fondamentali che hanno caratterizzato la sua campagna elettorale. In caso di vittoria, Trump concederà ai suoi uomini, e al partito che si trova (quasi per caso) a rappresentare, qualche “contentino”: ma si tratterà perlopiù di materie che non lo appassionano particolarmente. Quando si tratterà di truppe da schierare o richiamare, quando si parlerà di confrontarsi con i grandi del mondo (da Putin ad Assad, da Kim Jong-un a Rohani) Trump vorrà la scena tutta per sé. Chi deciderà di votarlo non si faccia illusioni: un dibattito televisivo ben impostato non farà di Mike Pence il nuovo presidente Usa. (Dario D’Angelo)



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