Quelle foto dei bambini yemeniti ridotti a scheletri hanno riportato al centro della ribalta internazionale una guerra dimenticata, ma non meno cruenta di quella siriana. “La situazione umanitaria del Paese è devastante”, ha commentato Stephen O’Brien, coordinatore Onu per le emergenze. Proprio come quella in Siria, anche la guerra nello Yemen è iniziata nel nome della democrazia e sotto l’appellativo nobile di Primavera araba, ma presto si è trasformata in un massacro senza fine. I morti sono stati finora 10mila e gli sfollati quasi tre milioni. I bambini stanno morendo di fame e gli scatti che li ritraggono hanno fatto il giro del mondo. Ne abbiamo parlato con Massimo Campanini, docente di storia dei paesi islamici nell’Università di Trento.
Ci vuole spiegare il senso di questa guerra “minore” per i media occidentali?
Il problema risale al momento dell’unificazione dello Yemen nel 1990, quando è venuto al pettine sia il nodo del rapporto tra maggioranza sunnita e minoranza sciita, sia quello tra Sud e Nord del Paese. In una Penisola Arabica massicciamente sunnita, lo Yemen è uno dei pochi luoghi in cui la minoranza sciita dominava su una maggioranza sunnita. Ciò è avvenuto fin dall’epoca del cosiddetto “Imamato dei Mutawakkiti”, la dinastia che ha regnato sul Paese tra la fine dell’800 e gli anni 60 del secolo scorso.
Qual è stato il ruolo degli houthi in questa vicenda?
Tra il 1978 e il 2012 è salito al potere Ali Abdullah Saleh grazie all’appoggio degli houthi. Questi ultimi sono una confederazione tribale sciita che ha mantenuto il controllo del potere attraverso Saleh su un Paese a maggioranza sunnita. Quando Saleh è caduto, questi problemi si sono riaperti e lo Yemen è stato risucchiato nel vortice della rivalità tra Arabia Saudita e Iran per il dominio del Golfo. L’Arabia Saudita ha cercato di assumere il controllo del Paese, innervosendo così gli houthi che vivono sulle montagne, mentre i sunniti popolano la pianura e le coste. A quel punto gli houthi hanno cercato di riprendere il controllo politico del Paese contro l’Arabia Saudita.
Quali sono gli attori internazionali che hanno cercato di influenzare il conflitto?
In questo conflitto si sono inserite numerose variabili a partire dalle organizzazioni di tipo qaedista/jihadista, protette o tollerate dall’Arabia Saudita. L’Iran ha cercato una sponda nella ribellione degli houthi sciiti contro l’Arabia Saudita sunnita, che aveva rovesciato i rapporti di potere nello Yemen.
Quindi è una guerra per procura tra Iran e Arabia Saudita?
Non è così, e per una ragione molto semplice. Gli sciiti si dividono tra due grandi correnti, gli zaiditi e gli imamiti. Gli zaiditi, cui appartengono gli houthi, non riconoscono la superiorità del Grande Ayatollah dell’Iran, Ali Khamenei. Non c’è quindi un rapporto immediato tra gli houthi e l’Iran. L’Iran può sostenere gli houthi dal punto di vista diplomatico e magari anche inviando armi. Teheran però non può pretendere di dominare gli houthi yemeniti come fa con gli sciiti irakeni, proprio in quanto i primi sono zaiditi mentre i secondo sono imamiti.
Quali sono gli obiettivi dell’Iran?
L’Iran cerca di sfruttare il conflitto in corso nello Yemen in quanto potrebbe indebolire l’Arabia Saudita. Non credo però che Teheran possa arrischiare una guerra totale per gli houthi, perché se anche dovesse vincerla poi gli houthi non sarebbero immediatamente suoi “clienti”. E’ quindi una situazione estremamente complicata.
Lei ritiene che quella in corso in Yemen sia una guerra di natura religiosa?
Solo in parte. Lo Yemen è un Paese ancora oggi fortemente tribalizzato. Dalla fine dell’800, all’epoca degli imam zaiditi, è stato tenuto insieme da un’autorità centrale. Quest’ultima però doveva cercare di mediare e portare a sintesi rivalità interne che nascevano dal conflitto tra sciiti zaiditi e sunniti, ma soprattutto tra orientamenti e raggruppamenti tribali molto definiti che poi si riconoscono anche in un’obbedienza religiosa. Molto spesso però in queste situazioni la coesione tribale viene prima dell’obbedienza religiosa, come è tipico del modo di essere beduino.
(Pietro Vernizzi)