Le prime cento ore della presidenza Trump sono state certamente scioccanti: ma non per i cosiddetti “disordini ovunque in America”. L’Election-Day 2016 ha mandato in frantumi anche il format-Cnn della piazze del Cairo e di Kiev: quello manipolato dal segretario di Stato Hillary Clinton per conto del presidente-Nobel per la pace Barack Obama. Un Truman-show che ha avuto l’effetto reale di portare l’Isis sulle sponde del Mediterraneo e i missili Usa in Ucraina a tiro della dacia di Vladimir Putin. Un reality che ha certamente portato nelle casse della Fondazione Clinton milioni di dollari poco presentabili e alla fine inutili alla prosecuzione della dinasty “Bush Padre-Obama Marito-Bush Figlio-Obama Marito-(Clinton Moglie-Obama Moglie)”. Ma l’America minoritaria che gioca alla protesta – violando i propri canoni politically correct – resta evidentemente quella convinta che martedì scorso il voto importante fosse quello sulla marijuana creativa.
L’America maggioritaria che martedì ha votato il suo presidente, lo ha intanto già potuto vedere in azione. Potrà non piacere – anzi sarà spiaciuto a molti – che nella prima presa di posizione in assoluto dopo il victory-speech Trump abbia confermato di non vedere problemi nella presenza di coloni israeliani nei territori palestinesi. L’altolà dato da Trump alla Casa Bianca – dove fino al 20 gennaio Obama ha in teoria pieni poteri – sarà parso ad alcuni la prima di una serie di brutali forzature istituzionali. Ma quanto è piaciuto – a tutto il mondo, Italia compresa – la passiva inconcludenza dell’amministrazione democratica uscente sullo scacchiere siriano-iracheno in tre lunghissimi anni?
Ieri il presidente della Camera Laura Boldrini ha commemorato la vittima italiana del Bataclan: già un anno e nulla è cambiato, anzi attentati e morti si sono moltiplicati. Meglio il concerto di Sting o l’intervista al Wall Street Journal in cui Trump dice e intende: su quel big mess del Medio Oriente ci lavoro io, da oggi. Con Putin e Netanyahu e chi vuole. L’Europa “lussemburghese” di Jean-Claude Juncker non ci sta? Si può tenere le ondate di migranti, i sacerdoti sgozzati, altre exit dopo quella britannica. Gli Usa non pagano la Nato per minacciare la Russia semmai per combattere l’Isis (a proposito: il “ministro degli Esteri” della Ue, l’italiana Federica Mogherini, che linea ha sulla questione? Altro che “Trump ci farà perdere due anni”: lui la sua linea l’ha già data dopo tre giorni, è l’Europa che sta perdendo tempo e magari anche Pil per le sanzioni alla Russia).
Io sono stato eletto da un “movimento”, ha detto Trump-l’Antipolitico. Ma in tre giorni ha poi alternato due governatori repubblicani a capo del suo transition team. Ed è probabile che abbia abbia messo in stand by Chris Christie (New Jersey) con un riflesso di realismo: oltre l’Hudson – nella Grande Mela dove Trump è nato e in questi giorni sta facendo il presidente – si ricordano ancora lo scherzo fatto da Christie con la chiusura del George Washington Bridge durante la grande nevicata del 2015. Chi è più provocatore a New York: Trump che sacrifica un suo supporter di peso oppure il sindaco Bill Di Blasio che teorizza la “resistenza” dei clandestini e il diritto di un ente pubblico a mantenerli tali?
Con il ruolo dato al vicepresidente Pence – ma anche a veterani del GOP come Newt Gingrich o Rudy Giuliani – Trump è già l’esatto contrario di unl Beppe Grillo a stelle e strisce. Ben difficilmente The Donald assegnerà a una Virginia Raggi una sedia importante nella sua amministrazione, si circonderà di gente alla Di Maio, candiderà uno Stefano Rodotà. Essere eletti da un “movimento” non signiffica rottamare i partiti storici (questo è semmai il cliché imposto dai liberal a Trump). Riformare dalle fondamenta un partito – anzi due, perche anche i democratici dovranno cambiare molto – non vuol dire cosiderare “nemica del popolo” l’intera classe dirigente che ha governato fino a ora (senza insistere sul Mailgate di Hillary Clinton).
Il segnale più originale delle prime 100 ore è comunque anche il più controverso: quello che Trump ha scambiato con Wall Street. Non è certo che l’ipotesi Jamie Dimon come segretario al Tesoro sia stato un ballon d’essai lanciato dalla Trump Tower verso Lower Manhattan: è probabile, ma può darsi sia avvenuto anche l’inverso. L’ipotesi sembra già tramontata ma, nel caso, sarebbe un errore giudicarla una semplice “bruciatura”: avrebbe comunque avuto un significato in sé. Dimon, capo di JPMorgan Chase, è oggi il primo banchiere d’America e forse del mondo (fra l’altro è stato incaricato direttamente dal premier italiano di salvare Mps). Trump, in campagna elettorale, non ha mancato di “beccare” anche lui, che da discendente di immigrati greci a New York è sempre passato per democratico (clintoniano).
Se tuttavia è stato il neo-presidente a “stanare” il banchiere, era perfettamente consapevole di correre subito un rischio: quello di evocare il fantasma di Hank Paulson, il presidente della Goldman Sachs chiamato al Tesoro nel 2006 da George Bush. Paulson avrebbe dovuto almeno contenere, se non spegnere, l’incendio della finanza derivata, già allora fuori controllo. Non ci riuscì: nel settembre 2008 a Wall Street ci fu la fiammata finale e due mesi dopo Obama stravinse la Casa Bianca. JPMChase non fu mai a rischio-fallimento: a Dimon fu anzi chiesto di salvare Lehman Brothers, ma rifiutò. La sua banca fu invece in grado di rifiutare successivamente ogni aiuto pubblico. Le macchie sul palmares di Dimon sono venute dopo: non da Wall Street ma dalla City di Londra. Qui JPMChase perse 6 miliardi a un tavollo di derivati tenuto dal trader London Whale. I problemi per il banchiere furono essenzialmente politici: JPMChase fu messa sotto accusa da una commissione senatoriale (principalmente dai democratici). Dimon se la cavò con difficoltà e poco dopo dovette lottare anche con un tumore alla gola. Perché un presidente eletto dalla collera dell’America profonda a otto anni dal crack Lehman dovrebbe piazzare un Dimon al Tesoro? Oppure: perché Wall Street si mostra disposta a offrire il suo champion a questo “strano presidente”?
Nella sua prima intervista – data non a caso al repubblicanissimo Wall Street Journal – Trump ha detto alle banche un preciso homework: “Prestare di più”, naturalmente alle imprese. Prevedibimente alle imprese americane che saranno coinvolte nei grandi progetti infrastrutturali prospettati già nel victory speech. Quei piani che dovranno “dare un lavoro agli uomini e donne dimenticati” finora dall’orgia della finanza globalizzata.
E qui che la Trumponomics sarà alla prova: provando ad asciugare il quantitative easing monetario per pompare nuovi stimoli fiscali diretti con una strategia da new deal rooseveltiano. Ma siamo nel secondo decennio del ventunesimo secolo, non nel terzo del ventesimo: Trump-il-Realista, non sorprendentemente, sembra rendersi conto di non poter manovrare senza Wall Street a bordo della sua amministrazione. E pare fra l’altro convinto che solo un peso massimo del calibro di Dimon saprebbe gestire le prevedibile resistenze della Fed obamiana di Janet Yellen, già messa nella lista nera. Wall Street dal canto suo ha già dato a Trump una sorta di benvenuto, contraddicendo tutte le attese di crollo dei listini. Una sorta di apertura di credito, in attesa di capire se Trump intendere stringere una vera “partnership strategica”: riconcedendo al sistema bancario un po’ di deregulation (anche se è tuttora dubbio che la ri-regulation post-crisi di Obama abbia realmente messo il guinzaglio a Wall Street).
Nessuno, intanto, ha dimenticato come il precedente presidente repubblicano fronteggiò le ricadute economico-finanziarie dell’11 settembre: innescando artificialmente un boom immobiliare a colpi di subprime. Nelle prime ore del 9 novembre, Trump ha parlato di “ricostruire ponti, autostrade e ospedali”. E’ lì che vuole dalle banche dollari “veri”, diversi quelli che la Fed ha stampato in questi anni per tenere le banche al caldo e le Borse gonfie. Ce la farà The Donald? E’ ovvio che i gufi, già nelle prime cento ore, siamo stati assordanti: ma sono in gran parte i sodali sconfitti di Hillary Clinton, con cui la presidenza Usa rischiava di trasformarsi in una monarchia para-tecnocratica.