Non è compito facile cercare di capire quale sarà in concreto la politica estera di Donald Trump e quanto coerente con le spinte isolazioniste che hanno contraddistinto la sua campagna elettorale. E’ difficile che il presidente eletto possa, e voglia, portare gli Stati Uniti su posizioni di isolazionismo puro; è però probabile un progressivo minor interventismo americano in molte zone del pianeta. Lo slogan trumpiano “rifacciamo grande l’America” indica la volontà di decidere quando e dove intervenire secondo gli interessi degli Usa, non perché chiamati da altri o perché ci si proclama “guardiani del mondo”. In questa luce, anche la sua “amicizia” con Vladimir Putin dovrà passare al vaglio degli interessi Usa, certamente non del tutto coincidenti con quelli russi. Tuttavia, il diverso rapporto con Putin rispetto alla conflittualità dichiarata di Barack Obama e di Hillary Clinton avrà decise conseguenze sulle tre aree maggiormente critiche: Europa, Pacifico, Medio Oriente.



L’Europa è l’area nella quale si verificherà forse in modo più evidente un progressivo disimpegno, viste le dichiarazioni di Trump sulla Nato, la ridiscussione del ruolo degli Stati Uniti al suo interno e l’invito ai partner europei a spendere di più sulla loro difesa. D’altra parte, se ben utilizzati da Trump, i buoni rapporti con Putin potrebbero quanto meno arginare eventuali eccessi interventisti russi.



Nel Pacifico il problema è dato dall’espansionismo cinese, anche militare, e qui appare ancor più problematico capire quale sarà la politica della nuova amministrazione. La minaccia di aumentare drasticamente i dazi sui prodotti cinesi, tuttavia, non prelude a rapporti distesi. In questa regione, Trump potrebbe agire per evitare un’alleanza tra Cina e Russia, che parrebbe peraltro poco attraente anche per Putin.

E’ pensabile che gli effetti più immediati e sensibili del possibile nuovo corso si verifichino in Medio Oriente, particolarmente in Siria. Qui la presenza russa è determinante e rapporti meno conflittuali con Putin potrebbero consentire quell’accordo finora rivelatosi impraticabile. Sarebbe un sollievo per le martoriate popolazioni siriane, anche se la strada per una pace definitiva rimarrebbe lunga. La guerra civile ha scavato fossati difficilmente colmabili tra gli alawiti, che sostengono Assad, i sunniti, a loro volta molto divisi, e i curdi. Trump, a differenza della Clinton, non sembra aver posto la cacciata di Assad come pregiudiziale. Ciò lascia spazio a trattative allargate in vista di un accordo con le fazioni ribelli meno estremiste, che porti a un nuovo assetto del Paese, che si spera più democratico. Un passaggio delicato sarà la revisione della politica americana di sostegno ai ribelli, finora ambigua e con contraddizioni nella stessa amministrazione Obama.



Quanto agli altri protagonisti nella regione, un primo problema viene dalla Turchia, che ha già chiesto a Trump l’estradizione dagli Stati Uniti di Fethullah Gülen, ritenuto il mandante del mancato golpe contro il governo di Erdogan. Su tale richiesta Obama ha finora tergiversato, ma lo slogan di Trump, “America first” porta a pensare che ora sarà rinviata al mittente come un’insopportabile ingerenza. Almeno così sembrerebbe: con Trump il condizionale è d’obbligo.

Prudenza di giudizio va usata anche nel caso dei rapporti con l’Iran, attore importantissimo sia in Siria che in Iraq. Come Hillary Clinton, Trump si è dichiarato contrario all’accordo sul nucleare firmato da Obama, ma il suo pragmatismo è improbabile lo porti a cancellare il trattato. Al di là delle invettive contro il “Grande Satana”, è anche improbabile che Teheran assuma posizioni troppo drastiche, dato che l’accordo è decisamente nel suo interesse. Ci si può aspettare, quindi, una sostanziale continuazione dei rapporti, pur con maggiori difficoltà rispetto alla precedente amministrazione. In fondo, lo stesso Trump ha detto che dal trattato stanno guadagnando tutti, tranne le imprese americane. Una maggiore presenza dell’industria americana potrebbe essere una concreta giustificazione al mantenimento dell’accordo. Anche in questo caso è rilevante la posizione della Russia, sostanziale alleata di Teheran.

La posizione verso l’Iran condizionerà peraltro i rapporti con un altro alleato storico degli Stati Uniti, Israele, deciso oppositore dell’accordo sul nucleare. I rapporti di Netanyahu con Obama erano decisamente freddi, mentre dovrebbero essere più cordiali con Trump, ma permane l’impressione che “The Donald” voglia districarsi al più presto dal groviglio mediorientale. Di conseguenza, è ragionevole pensare che non voglia essere coinvolto direttamente nella questione palestinese, pur ribadendo l’amicizia con Israele.

A questa amicizia Trump ha di fatto contrapposto una certa distanza dal mondo islamico, nel quale hanno provocato vivaci reazioni le sue precedenti dichiarazioni di voler spostare, se eletto, l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola così ufficialmente come capitale dello Stato di Israele. Una mossa questa che avrebbe gravi conseguenze nella maggior parte dei Paesi islamici e che appare difficilmente effettuabile nel breve periodo. Si può invece ritenere probabile un raffreddamento dei rapporti con l’Arabia Saudita, perno inossidabile per le alleanze di Obama e Clinton. I sauditi non godono di molte simpatie in larghi strati dell’opinione pubblica statunitense, che non ha apprezzato il veto posto da Obama alla legge che dava ai parenti delle vittime dell’attentato dell’11 settembre la possibilità di citare in giudizio il governo saudita per complicità. Anche perché sotto ricatto dei sauditi che hanno minacciato di ritirare tutti i loro investimenti negli Usa.

Per affrontare la complessa situazione mediorientale Trump dovrà abbandonare la rustica aggressività della sua campagna in favore di analisi più sottili e toni più sfumati. Non è credibile che Trump pensi possibile una ritirata improvvisa dal Medio Oriente, ma è ipotizzabile una strategia che tenda a una posizione più neutrale degli Stati Uniti, dando più responsabilità agli attori locali e agli alleati europei, più direttamente coinvolti nell’area. Il fattore guida degli interventi non sarà più il portare “l’ordine americano” nella regione, ma assicurare che da questa non arrivino pericoli per la sicurezza degli Stati Uniti. Una strategia forse più difficile di quella interventista di Obama e Clinton e che dipenderà in modo determinante da chi ricoprirà il delicato incarico di Segretario di Stato. Per il momento, ogni tentativo di analisi rimane sottoposto a un notevole grado di incertezza, ma si può almeno sperare che si sia allontanato il pericolo di uno scontro diretto con la Russia. Il che non sarebbe poco.