La Cina aspira a governare il mondo. È indiscutibile. E tale aspirazione  altro non è che il compiersi di un processo storico che comincia nell’era contemporanea, ossia all’inizio del Novecento, con la grande ascesa del nazionalismo anti-giapponese che si trasformerà poi – dopo laceranti divisioni tra nazionalisti comunisti e nazionalisti filo occidentali – nella Lunga marcia maoista che darà vita alla nuova Cina. Dopo le sanguinose lotte intestine a cui si pose fine aprendo alla mondializzazione, il Partito comunista cinese, e con esso la classe dirigente dell’immensa burocrazia che controlla l’economia, cerca di pre-formare la società secondo il principio del potere verticale. La Cina di Xi Jinping cerca quindi di trasformare il peso demografico di quell’immensa nazione in una posizione dominante a livello mondiale, con una forte dose di aggressività militare. 



Oggi la direzione del Partito comunista vede il ritorno a una forma del potere centrale non più condiviso ma unico: Xi Jinping è capo del partito, dell’esercito, degli apparati di sicurezza. La Cina sconvolge in tal modo un mondo capitalistico in piena recessione mondiale che ha perso, dopo le guerre mediorientali e l’affievolirsi della stella dell’euro e dell’unità europea, il suo centro archetipale. Quel centro – sino all’inizio dei fallimenti mediorientali che hanno avuto la loro acme nelle cosiddette primavere arabe – era la dispiegata egemonia nordamericana sul mondo intero. Oggi essa è stata scossa nel profondo dal lento disgregarsi del potere mondiale e non solo nordamericano. Questo disgregarsi è a fondamento della profonda divisione dell’establishment Usa che ha dato vita alla vittoria di Donald Trump e alla riflessione in corso sugli eccessi e i limiti di una finanziarizzazione sregolata che rischia di mettere in forse il ruolo mondiale della grande industria nordamericana. 



La Cina fa un passo di grande realismo e di grande audacia insieme, proponendosi come interlocutore indispensabile nella nuova fase della globalizzazione che sta aprendosi. La fase di un neo-protezionismo selettivo e che pone fine a una crescita del commercio mondiale fondato sugli accordi multilaterali e sulla prevalenza della finanza e dell’industria high tech ad alta capitalizzazione di borsa e bassa produttività del lavoro: lavoro che distrugge e non crea. La nuova fase a protezionismo selettivo è sospinta invece dall’industria ad alta intensità di capitale fisso, a più moderata capitalizzazione borsistica e dal ritorno del principio della prevalenza relativa del principio ordinativo della nazione su quello dell’economia di mercato aperto. 



La Cina, che non a caso quel sistema high tech non ha mai condiviso e che ha solo accettato la sua presenza in forme accentuatamente nazionalistiche tipiche di una dittatura, è impegnata nella grande e irrisolta trasformazione della sostituzione delle importazioni con produzioni nazionali accompagnate da un ancor non avvenuto processo di estesa urbanizzazione. La proposta cinese si innesta su un preciso giudizio delle intersezioni strutturali possibili tra due grandi potenze mondiali. Se l’intersezione si realizzasse, a essere declassate nel sistema di pesi e rilevanze della geostrategia mondiale sarebbero la Russia di Putin e l’Europa di Juncker. La prima in ascesa sulla scena mondiale e non solo mediorientale, la seconda in decadenza relativa per incapacità strategica e per eccesso di squilibrio di potenza commerciale e di produttività del lavoro in un sistema di cambi fissi e di eliminazione della sovranità economica statuale senza la creazione di un nuovo stato democraticamente legittimato. 

La mossa cinese è drammaticamente sfidante perché è fondata sulla mossa del cavallo che si è manifestata con l’avvento pressoché simultaneo della Brexit e della realizzata alleanza strategica tra il Regno Unito e la stessa Cina allorché quest’ultima ha fondato a Londra quella Banca della Nuova Via della Seta a cui aderiscono tutte le potenze e le nazioni del mondo salvo gli Usa. La Cina si auto-propone come nuovo centro archetipale del mondo. Del resto questa aspirazione affonda le sue radici nella storia di questa immensa nazione. Non ci sono vie di mezzo: o cooperare con i “barbari” o combattere i “barbari”. Non è detto però che si debba combattere sin da subito una guerra militare: all’inizio si combatte con le armi del commercio. Del resto Trump ha lanciato la sfida: l’impero di mezzo a questa sfida ora risponde. 

L’esito è più che mai incerto, ma la battaglia è certa. Chissà se di questo parleranno Xi Jinping e Matteo Renzi allorquando si incontreranno tra poche ore in Sardegna. Se ciò avverrà, come avverrà, significherà dunque che il legame tra l’Italia e gli Usa trascende la forma  del governo politico per essere invece espressione di un’organica condivisione del potere mondiale e della sua sicurezza, tenendo conto delle dimensioni relative del sistema di potenza. Una certezza nel sistema dell’instabilità mondiale crescente.