Non è affatto usuale che un presidente degli Stati Uniti si riunisca con gli alleati europei prima di lasciare il suo incarico, una sorta di commiato internazionale di Barack Obama che la dice lunga su quel che potrebbe diventare la presidenza Trump: una vera e propria rottura nelle relazioni internazionali, un cambio di paradigma nei rapporti transatlantici. L’incontro si è svolto a Berlino e non a caso. Dalla nascita della Nato in poi, la Germania è stata l’interlocutore principale degli Usa in Europa; chissà a questo punto se lo sarà ancora, anzi chissà se l’Europa sarà per “The Donald” un soggetto geopolitico piuttosto che un’espressione geografica.



Il tema di fondo dell’incontro è stato il rapporto con la Russia di Putin: l’idea di una nuova Jalta che frulla in testa al presidente e ai suoi consiglieri ostacola il progetto di Unione europea così com’è stato costruito dopo la fine della guerra fredda.

Il nuovo scenario internazionale mette in notevole difficoltà l’Italia che contava di giocare un suo ruolo particolare sviluppando un rapporto forte con l’amministrazione Obama. Matteo Renzi pensava di bilanciare l’egemonia tedesca in Europa e fare da messaggero con Mosca, grazie a una relazione amichevole con la Russia, anche con il regime putiniano. Trump, invece, non avrà bisogno di intermediari. Tra tutti i leader che ha contattato finora non c’è Renzi, forse anche per quel nostalgico incontro di fine mandato con Obama, ma soprattutto perché Roma non figura nella sua agenda.



Sono già in molti quelli che cercano di saltare sul carro del vincitore e di trumpizzarsi, da Salvini a Grillo sono pronti a indossare il parrucchino color polenta. Ma l’Italia si trova davanti a un dilemma veramente difficile: o si dimostra un Paese stabile politicamente, solido economicamente e unito da interessi nazionali condivisi, tanto da giocare alla pari nel concerto delle nazioni, oppure non le resta che ritagliarsi una nicchia gregaria.

Con la Brexit non c’è più Londra a poter fare da sponda (ammesso che lo sia mai stata per davvero). Con Trump c’è un presidente che chiede di pagare di più per la difesa a un Paese, a un parlamento, a forze politiche che vorrebbero far tornare a casa i soldati impegnati in questi anni nelle missioni internazionali. Se The Donald per valutare l’importanza del proprio interlocutore vuol sapere quanti soldi ha in tasca e quante forze può mettere in campo, allora bisogna concludere che abbiamo davvero poche carte da giocare. Chi s’illude che può diventare più facile girare le spalle a Bruxelles o magari uscire dall’euro è destinato a trovarsi senza amici che lo aiutino a passare oltre il burrone. E chi pensa che possiamo continuare a tenere i piedi in due staffe, non si rende conto di quanto stiano mutando a nostro sfavore gli equilibri internazionali. 



Renzi aveva cercato di accreditarsi come il perno di una politica europea nel Mediterraneo e, almeno in parte, nel Medio Oriente. Ebbene anche qui le cose sono già cambiate. La nomina di Michael Flynn come consigliere per la sicurezza nazionale mette il bollo sulla svolta anti-iraniana, mentre è noto che l’Italia ha sempre cercato l’appeasement con Teheran pur mantenendo buoni rapporti con Israele. Oggi questo equilibrismo diventa impossibile, la scelta del nuovo ambasciatore a Tel Aviv, il conservatore di ferro Mike Huckabee, dimostra da che parte si è spostato il pendolo. Si prepara una stretta anche nei confronti della Libia dove gli americani potrebbero intervenire con il guanto di ferro rompendo gli attuali, pur instabili, equilibri sui quali l’Italia fa affidamento. Comunque vada, l’amministrazione Trump giocherà da sola la sua partita che non coincide né con quella europea, né con quella italiana.

Ultimo, anche se non per importanza, lo scacchiere monetario. Vedremo come si svilupperà in concreto la Trumponomics, ma in ogni caso il dollaro verrà usato sempre più come uno strumento di protezione degli interessi nazionali anziché come una moneta globale, mettendo l’euro con le spalle al muro. I governatori delle banche centrali hanno reagito ribadendo la loro indipendenza. Lo ha fatto Janet Yellen entrando in modo irrituale nel campo della politica: ha rifiutato di dimettersi e ha messo in guardia da una controriforma bancaria. Ma lo ha fatto anche Mario Draghi difendendo le regole finanziarie introdotte in risposta alla crisi del 2008 e soprattutto dichiarandosi pronto a prorogare le misure straordinarie di politica monetaria fino a tutto il 2017. Con il no alla deregulation ha sfidato Trump, prolungando il Qe si mette contro l’establishment politico-finanziario tedesco proprio mentre si fanno insistenti le pressioni affinché Angela Merkel smetta di proteggerlo.

Il nuovo scenario neo-nazionalista, come lo ha definito l’Economist, lascia poco spazio all’autonomia dei banchieri centrali. Chi in tutti questi anni se l’era presa con il potere dei tecnocrati è contento, ma scoprirà presto che non sarà il popolo a prendere il comando, bensì i banchieri amici del nuovo principe.