La vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane e la sconfitta di Sarkozy alle primarie del centro destra in Francia possono essere viste, tra le altre cose, come dei possibili segnali di cambiamento nella politica estera ed in particolare in quella mediterranea. In questo contesto la Libia rappresenta il paese che più ci interessa da vicino e che più può essere considerato la cartina al tornasole degli errori della precedente amministrazione americana e della politica estera francese di Sarkozy.



La partita francese in Libia ha inizio molti anni fa, nel 1881, con quello che dalla stampa italiana di allora venne chiamato “lo schiaffo di Tunisi”. Il governo della Terza Repubblica francese, con un’azione di forza, stabilì il protettorato sulla Tunisia, obiettivo dei propositi coloniali del Regno d’Italia, costringendoci a ripiegare su quello che allora pareva soltanto “uno scatolone di sabbia”. Salvo poi rivelarsi una miniera d’oro nero. 



Nel 1949, dopo la disastrosa avventura coloniale italiana, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, col beneplacito della Francia e della Gran Bretagna, che avevano ereditato il compito di amministrare le tre regioni libiche, decise per l’unità del paese in uno Stato indipendente e sovrano. Potremmo dire, con po’ di amaro sarcasmo, che le potenze internazionali unirono ciò che molti anni dopo, nel 2011, avrebbero nuovamente diviso.  

La missione della Nato in Libia a supporto dei ribelli anti-regime, non è certo una novità, è stata voluta dal governo francese guidato da Sarkozy che, pochi giorni dopo lo scoppio delle rivolte chiese una riunione urgente al Consiglio di Sicurezza per prendere adeguate misure nei confronti della repressione delle insurrezioni contro Muammar Gheddafi. Una solerzia riconducibile a motivazioni dettate da meri interessi nazionali piuttosto che da reale volontà di porre fine all’azione messa in atto dal rais. 



Le elezioni imminenti e la popolarità in drastico calo del presidente, la necessità di allargare la fetta petrolifera d’oltralpe e la volontà di porre fine al “fastidioso” trattato di amicizia e cooperazione italo-libico del 2008, sono solo alcune delle mire di grandeur che hanno spinto la Francia ad agire nello scacchiere libico. Tali obiettivi, qualora l’accaduto venisse confermato, evidentemente valevano molto di più dei 5 miliardi di dollari che il rais avrebbe “spedito” a Parigi per finanziare la campagna elettorale del futuro capo dell’Eliseo.

Gli Stati Uniti, fedeli alla politica del disimpegno mediterraneo del leading from behind, hanno assecondato l’intervento, forse più per pigrizia che per reale convinzione, salvo poi, a più di cinque anni di distanza, fare un tardivo mea culpa. 

Il presidente americano Barack Obama, in un nota intervista rilasciata al The Atlantic lo scorso marzo, ha definito l’intervento in Libia il più grosso errore della propria politica estera, voluto “dagli opportunisti europei”. Difficile cercare una maggiore coerenza nell’atteggiamento italiano, ma è certo che abbiamo pagato per condurre una guerra contro i nostri interessi. 

Se l’intervento della “coalizione dei coscritti” del 2011 non ha brillato per coerenza, non si può certo dire che negli anni a venire le politiche occidentali abbiano intrapreso una strada più lineare. Ancora un “redivivo Obama” ammette, nella già citata intervista, di aver troppo confidato negli europei per il follow-up, un termine diplomatico per dire che quei paesi che avevano caldeggiato l’intervento militare hanno poi colpevolmente lasciato la Libia virare verso il fallimento. 

Nella polarizzazione del paese tra Tripoli e Tobruk, che neppure il tardivo sforzo dell’Onu per un governo unitario è riuscito a mitigare, la Francia ha poi contravvenuto a tutti gli impegni internazionali, appoggiando il generale Haftar, di fatto principale oppositore della soluzione unitaria. Gli Stati Uniti, invece, hanno preferito restare coerenti con la linea unitaria di Serraj, supportati dall’Italia che si è impegnata anche con l’invio di un contingente medico a Misurata per “soccorrere” le milizie, fedeli al governo di accordo nazionale, che combattono contro lo stato islamico a Sirte.

In questo contesto, se da un lato con l’elezione di Trump e la sua possibile convergenza con l’asse Putin-Al Sisi-Haftar, l’Italia rischia di rimanere fuori dai giochi, dall’altro questa potrebbe essere l’occasione per mettere in risalto il nostro ruolo. 

Infatti, per quanto ora la bilancia sembri pendere dalla parte del generale di Tobruk, la stabilità in Libia richiede anche il coinvolgimento degli attori di Tripoli, misuratini in primis. Da questo punto di vista il nostro ruolo e la nostra esperienza nell’area tripolina potrebbero renderci interlocutori forti, molto più dei francesi. Starà a noi riuscire a far valere la nostra posizione o “regalare” questa opportunità ad altre potenze come, ad esempio, la Gran Bretagna, che sembra aver già messo gli occhi sulla Capitale libica.