Come scritto in un precedente articolo sul sussidiario sembra difficile che Trump possa mantenere nei fatti il netto rifiuto espresso in campagna elettorale dell’accordo sul nucleare firmato da Obama con l’Iran. Al di là delle dichiarazioni bellicose, provenienti anche da Teheran, a nessuna delle parti conviene far saltare l’accordo, per il quale è comunque previsto un lungo e controllato iter di applicazione. Lo stesso Trump, tra l’altro, ha poi definito difficilmente realizzabile l’ipotesi di cancellare il trattato, ma ha dichiarato che, come presidente, ne sorveglierà in modo estremamente rigoroso l’esecuzione, con sottintesa la minaccia di renderla in pratica impossibile se ciò fosse necessario.



Il dibattito è stato ravvivato dalla nomina a capo della Cia di Mike Pompeo, deciso avversario dell’accordo. Questa nomina potrebbe però essere una conferma delle intenzioni di Trump di sorvegliare strettamente l’applicazione dell’accordo, senza annullarlo. Il lavoro di intelligence dell’Agenzia è infatti fondamentale per individuare eventuali violazioni iraniane, tanto più se il suo direttore non è disposto a fare alcun sconto di tipo politico a Teheran.



La politica di Obama in Medio Oriente si è dimostrata in larga parte confusa se non contraddittoria, ma l’accordo sul nucleare è forse uno dei pochi successi ottenuti e non credo che Trump voglia imbarcarsi in una strategia che aprirebbe un altro pericoloso fronte per gli Stati Uniti. E’invece più probabile che la nuova amministrazione assuma un atteggiamento più rigido, ma non di rottura, con Teheran e che, dall’altra parte, allenti gli stretti legami con Riyadh, qui sì staccandosi nettamente dalla precedente amministrazione. Larga parte dell’opinione pubblica è molto critica verso i sauditi, accusati di collusione con gli attentatori dell’11 settembre, ed è probabile che Trump tenga ben conto di questo fattore.



Uno dei punti controversi della sua campagna elettorale è stata la presa di distanza dalla conferenza sul clima di Parigi e dalla sua condanna dei carburanti di origine fossile. A differenza di Obama, Trump sembra voler avere un occhio di riguardo per le industrie del settore, tanto più che il petrolio da scisti, dal punto di vista delle riserve energetiche, ha reso indipendenti gli Usa, che anzi possono diventare esportatori di petrolio e gas. La politica di sovrapproduzione che ha portato al crollo dei prezzi del petrolio è stata voluta dall’Arabia Saudita, con obiettivo principale i produttori statunitensi che, peraltro, hanno dimostrato una capacità di resistenza maggiore di quanto probabilmente i sauditi supponevano. Il cambiamento di rotta è quindi giustificato da ragioni sia geopolitiche che economiche.  

Anche in recenti interviste, Trump ha ribadito la necessità di risolvere al più presto il conflitto in Siria, con modalità che non prevedono l’abbattimento del regime di Assad, come chiesto da Obama e, in particolare, dalla Clinton. La soluzione che si può ipotizzare di un accordo con la Russia sarebbe probabilmente osteggiata dall’Arabia Saudita, e lascerebbe insoddisfatta la Turchia, ma sarebbe la più coerente con l’impegno preso da Trump di combattere con maggiore decisione il terrorismo di matrice islamica.

Si potrebbe obiettare che in questo modo verrebbe ancor più esaltato il ruolo della Russia in questo importante scacchiere, ma Trump ha più volte ripetuto di essere  contrario al concetto, finora centrale nella politica estera americana, di “nation builder“, cioè costruttori di Stati (altrui). E nel Medio Oriente la politica delle precedenti amministrazioni, lungi dal portare una pax americana, ha prodotto una disastrosa guerra di tutti contro tutti.