Mancano due giorni alla fine di questo bellissimo viaggio che porta il nome di Elezioni Usa 2016: tra poche ore sapremo chi tra Hillary Clinton e Donald Trump raccoglierà l’eredità di Barack Obama. Ma è impossibile far finta di niente: che a trionfare sia la Democratica o il Repubblicano, fa comunque uno strano effetto pensare che non sarà più l’ex senatore dell’Illinois a guidare la nazione più potente del Pianeta. Mancherà a molti vederlo scendere le scalette dell’Air Force One con cadenza quasi ritmica, e non saranno in pochi ad essere travolti da uno spirito nostalgico e a cercare sul web i video in cui arringava le folle al grido di “Yes, We Can!”. Altri, però, questo presidente nero non l’hanno mai digerito: e non ci riferiamo agli osservatori razzisti (quelli neanche li consideriamo), parliamo di quelli che proprio non l’hanno condiviso o capito, di quelli secondo cui Obama non è stato una buona guida, per gli Usa e per il mondo.
Ed è forse in questo aspetto che si annida la sottile differenza tra ciò che Obama è stato e ciò che non ha voluto essere, tra quel che il mondo si aspettava da lui e quello che Barack pretendeva da se stesso. Resta il fatto che Obama sta facendo le valige: fa strano pensarlo, ma otto anni giungono al termine. Allora com’è andata, Presidente?
Immaginiamo di trovarci all’interno dello Studio Ovale, a tu per tu con Barack Obama. Siamo costretti a dargli del tu, l’inglese non consente formalità: ‘How are you, Mr. President?’ La risposta è quella di un uomo in pace con se stesso: stanco sì, ma consapevole di aver fatto tutto ciò che credeva giusto per l’America, prima di tutto. La prima domanda che vogliamo porgli è se avrebbe avuto bisogno di altri 4 anni per completare il disegno che aveva in mente per gli Stati Uniti. La risposta la conosciamo già, la diplomazia prende il sopravvento anche in un contesto amichevole: ‘Hillary Clinton è la persona più qualificata a continuare il mio lavoro. In questi 8 anni abbiamo fatto tanto, e sono convinto che Hillary riuscirà a imprimere il suo timbro sulle nuove sfide che ci attendono’. Sembra un ottimo spot elettorale, eppure noi non siamo qui (almeno oggi) per parlare di futuro, ma di ciò che è stato. E se proprio vogliamo dirla tutta, ‘Caro Presidente, con Hillary non siete sempre andati d’accordo’. Obama non si scompone, in 8 anni di presidenza ha fatto il callo a domande ben più scomode.
Capisce subito che il riferimento è alla politica estera, all’aspetto che molti degli osservatori politici definiscono il suo più grande tallone d’achille. La risposta, più che da grande statista, è da uomo pragmatico: ‘In Libia e in Siria abbiamo avuto posizioni differenti. Io non ero convinto della bontà di spodestare Gheddafi, lei sì. Io non pensavo fosse la cosa migliore intervenire in Siria, lei sì. Sono punti di vista differenti, ma il Medio Oriente è una faccenda complessa: non sapremo mai come sarebbero andate le cose se…’. A questo punto non resistiamo alla tentazione di interromperlo, ed è un bell’ardire arrestare il discorso dell’uomo (ancora) più potente del Pianeta in casa sua. L’obiezione riguarda soprattutto l’Isis: ‘Se non si fosse intervenuti in Libia forse non si sarebbe generato il caos da cui è nato il Califfato, no?’Obama questa volta prende tempo, gira intorno al discorso, ma il messaggio è chiaro: lui è il Presidente degli Stati Uniti d’America, non è il Presidente del mondo.
Ci torna allora in mente un’altra frase pronunciata da Obama mesi fa ai cosiddetti “falchi” della sua amministrazione: ‘I tagliagole dell’Isis non verranno qui a tagliarci la testa’. Se Obama è interessato solo al destino degli Usa, dunque, bisogna capire come ha gestito la loro politica interna. Capiamo subito che ci ha portati sul suo terreno preferito: ha ereditato la crisi più grossa dal dopoguerra e oggi l’America torna a crescere; si è insediato in un’epoca in cui il livello di disoccupazione aveva raggiunto vette preoccupanti per gli standard del Paese e oggi quasi fa registrare un record di occupazione.
Ma Obama non è stato solo economia: mentre il tempo scorre e quasi sta per finire, Barack tira fuori la riforma sanitaria. I suoi detrattori la indicano come Obamacare per denigrarla, lui la considera uno dei fiori all’occhiello della sua presidenza: ‘Può essere ancora migliorata, ma oggi 13 milioni di americani in più hanno una copertura sanitaria. Questo ci rende orgogliosi’. Siamo qui davanti ad Obama e la sensazione, che si sia d’accordo o meno con le sue posizioni, è quella di essere di fronte ad una persona perbene. Il suo sguardo si incupisce soltanto verso la fine, quando gli chiediamo di esprimere un parere su Trump:’Lui rappresenta tutto ciò che l’America non è. Noi siamo un paese inclusivo, lui vuole isolarci. Non sarà facendo un test religioso ai rifugiati che sconfiggeremo il terrorismo. Non sarà alzando un muro con il Messico che elimineremo il traffico di droga. Il suo populismo è estremamente pericoloso per i valori democratici incarnati dal nostro Paese’.
Capiamo che non si tratta di moralismo, Obama è un buono: l’accordo sul cambiamento climatico, ad esempio, è un regalo fatto alle prossime generazioni, gliene va dato atto. Il tempo è scaduto, un assistente ci interrompe: il Presidente ha altre faccende di cui occuparsi, del resto ci sono più di due mesi prima dell’insediamento del nuovo inquilino della Casa Bianca. Il suo lascito, per quanto possano essere condivisibili molte delle critiche che gli vengono rivolte, è quello di un Presidente che ha badato agli interessi degli americani prima di tutto; anche rischiando di sbagliare, anche quando l’inazione si è rivelata più dannosa dell’interventismo ad ogni costo. Mentre ci stringe la mano gli rivolgiamo un’ultima domanda: ‘Cosa farai adesso? Pensi che ci rivedremo, Presidente?’. Continua a stringerci la mano, sorride e strizza l’occhio mentre dice:’Yes, we can’. (Dario D’Angelo)