La liberazione dei nostri connazionali in Libia, al di là delle necessarie considerazioni sul livello di sicurezza dei lavoratori che operano nel paese, ci ricorda anche che molte aziende italiane, specie del comparto delle costruzioni e dell’energia, non si sono mai fermate, riuscendo a tenere faticosamente aperta una strada che molte imprese straniere hanno smesso da tempo di percorrere.



Potrà essere l’economia a guidare la ripresa dei rapporti tra Italia e Libia? Nonostante i tentativi di boicottare la special relationship economica tra i due paesi — uno tra tutti l’intervento voluto dalla Francia nel 2011 per allargare la fetta petrolifera d’oltralpe e porre fine al “fastidioso” trattato di amicizia e cooperazione italo-libico — l’Italia è riuscita a mantenere un legame preferenziale con la Libia. Lo scorso ottobre Ali Mahamoud Hassan, chairman del Libyan Investment Autorithy (Lia), il tesoretto libico da 67 miliardi di dollari ancora congelato a Londra, ha voluto incontrare i vertici di Eni, Leonardo-Finmeccanica, Cassa Depositi e Prestiti, Snam e Unicredit. L’obiettivo era quello di illustrare le opportunità della ricostruzione libica e valutare la possibilità di una presenza della Lia nei vari consigli di amministrazione, grazie all’investimento di circa 8 miliardi di fondi interni. Si tratta di ben poca cosa rispetto a un possibile sblocco della Lia e in questa situazione di incertezza è difficile prevedere la tenuta di Hassan, ma il segnale appare comunque chiaro: l’Italia resta un interlocutore privilegiato per il mondo economico libico. 



Se le prospettive possono apparire interessanti, la realtà è però ben altra cosa. L’economia libica è in pezzi. Secondo dati recenti della Banca mondiale il tasso di inflazione è cresciuto del 25% nel primo semestre del 2016. I prezzi di farina e pane sono quintuplicati. Il reddito pro capite è sceso a meno di 5mila dollari, rispetto ai quasi 13mila dollari del 2012. Il paese versa in una persistente crisi di liquidità. Gli stipendi dei tanti dipendenti pubblici (la stragrande maggioranza della forza lavoro del paese) sono bloccati, così come quelli di alcune milizie che, qualche settimana fa, in segno di protesta, avevano occupato la sede del Consiglio presidenziale di Tripoli facendo gridare al golpe



Su tutto, poi, pesa il crollo della produzione di petrolio che da solo valeva tutta l’economia libica durante il regno di Gheddafi. Quello che resta degli introiti di un tempo, oggi ridotti a meno di un quinto, è mal gestito dalla Banca centrale libica che ostacola la consegna dei fondi ottenuti dalla vendita del greggio, barcamenandosi a fatica tra le “fazioni” di Tripoli e Tobruk. Per scongiurare l’ineluttabilità del default libico lo scorso 31 ottobre il Foreign Office di Londra ha convocato un incontro tra i paesi che sostengono il Governo di Accordo Nazionale, ma il risultato è stato poco più di un niente di fatto.  

Ciò non dovrebbe stupire visto che in realtà nessuno sembra aver ancora capito chi sia l’interlocutore con cui parlare in Libia. Il premier dell’Onu Serraj, sempre più debole anche nella capitale, o il “non riconosciuto” generale Haftar che, però, ha conquistato i pozzi della mezzaluna petrolifera e de facto li controlla? 

Da questo punto di vista se davvero si vorranno cogliere le opportunità della ricostruzione libica, si dovrà sostenere con molta più convinzione la ripresa del paese. Al di là del supporto alla ripresa della produzione petrolifera sarà necessario, nel breve periodo, aumentare la circolazione di denaro, sotto il controllo della Banca centrale, magari scongelando, previa una stretta supervisione, alcuni dei beni libici all’estero. Nulla però potrà essere fatto senza una preliminare ricostruzione politica del paese che dovrà necessariamente passare attraverso un dialogo inclusivo ed una cooperazione efficace tra gli attori del contesto locale. Come farlo non sarà solo un problema dei libici ma anche di tutti gli attori esterni che, più o meno scientemente, hanno contribuito a causare o ad acuire il caos nel paese.