Tra non molto dovremmo finalmente sapere chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti. Ho usato il condizionale perché se nessuno dei candidati raggiungesse i 270 voti elettorali necessari, l’elezione del presidente passerebbe alla Camera dei Rappresentanti. In tal caso, come già successo un paio di volte nella storia degli Stati Uniti, la scelta avverrebbe tra i tre candidati che hanno ricevuto il maggior numero di voti elettorali.
La resistenza di molti elettori a scegliere il “male minore” tra i due principali concorrenti sta dando agli altri candidati possibilità maggiori rispetto alle precedenti elezioni, rendendo non del tutto astratta l’ipotesi sopra descritta. Il repubblicano libertario Gary Johnson, la verde Jill Stein e il mormone pro life Evan McMullin hanno scarsissime probabilità di raggiungere la presidenza, ma possono condizionare in modo significativo l’elezione di uno dei due candidati principali.
Tra gli elementi evidenziati da questa paradossale campagna elettorale vi è la progressiva incidenza del fattore demografico, in particolare dei giovani, come descritto nell’articolo di Luca Passoni. Credo che Passoni abbia ragione quando dice che le prossime presidenziali rappresenteranno una cesura con il passato ma i prodromi sono già presenti in queste elezioni. Nelle primarie democratiche la vittoria di Hillary Clinton è stata in larga parte determinata dall’apparato del partito, contrario a Bernie Sanders, pur non estraneo all’establishment in quanto senatore di lungo corso, sia pure eletto come indipendente. Sanders non è certo un millennial, ma il suo definirsi socialista ha senza dubbio avuto più successo tra i giovani che nel tradizionale elettorato democratico e questi giovani, almeno in parte, potrebbero votare per il libertario Gary Johnson.
Anche Donald Trump può essere considerato fuori dall’establishment, ma il fatto che sia un imprenditore miliardario lo rende forse meno accettabile dai millennials, per una parte dei quali può essere, però, un richiamo al vecchio “sogno americano”. Dall’altra parte, le sue perorazioni, colorite e a tratti violente, lo rendono credibile agli occhi di quell’America profonda che non si riconosce, in modo sempre più radicale, nell’altra America, quella di Wall Street che appoggia così apertamente la Clinton.
Accanto alle marcate differenze di storia e carattere dei due antagonisti, la diversità dei pubblici ai quali si rivolgono spiega in gran parte le loro posizioni contrastanti non solo su temi sociali o economici, ma anche su un tema particolarmente rilevante per gli altri Paesi: la politica estera. La differenza tra Hillary Clinton e Donald Trump è ben evidenziata da due nomignoli loro affibbiati in campagna, rispettivamente “Killary Clinton” e “tirapiedi di Putin”.
Hillary Clinton è infatti ritenuta un superfalco, o addirittura una “guerrafondaia”, paradossalmente più in sintonia con i falchi repubblicani che con le colombe del suo partito. La politica estera che ha delineato è più dura e assertiva di quella di Barack Obama e porta a uno scontro sempre più diretto con la Russia di Putin, sia in Medio Oriente che in Europa. Donald Trump, al di là delle affermazioni di stima personale per Putin, sembra avere un atteggiamento più conciliante, anche se è difficile interpretare la sua reale strategia nella congerie di affermazioni non sempre coerenti tra loro.
Al fondo è possibile individuare due diverse concezioni sull’assetto mondiale considerato preferibile. La Clinton sembra ipotizzare un mondo diviso in due blocchi, uno stretto intorno agli Stati Uniti, l’altro dominato dagli avversari, Russia e Cina. Non a caso si parla di una ripresa della Guerra fredda, non solo per lo schieramento dei protagonisti, ma anche per la riedizione del confronto tra impero del male e mondo libero, che gli Stati Uniti hanno il compito di guidare sotto il profilo morale, non solo economico e militare. Questo ultimo aspetto desta qualche dubbio, visto l’appoggio senza condizioni a Stati assolutamente non democratici come l’Arabia Saudita.
Donald Trump si concentra invece sugli Stati Uniti, con lo slogan “America First”, prima di tutto l’America, che gli provoca frequenti accuse di isolazionismo. L’immagine fornita da Trump, sia pure in modo non del tutto coerente al suo interno, è di un’America che interviene altrove solo per autodifesa e non per interferire negli affari altrui, una concezione che ha parecchi e autorevoli riscontri nella storia degli Stati Uniti. La posizione di Trump sulla politica estera trova un largo seguito in quella massa di cittadini che vedono Afghanistan, Iraq e “dintorni” come oggetti misteriosi ai quali viene devoluta una gran parte della spesa statale a scapito del loro benessere, oltre il loro costo in vite americane. Costoro probabilmente concordano con Trump quando accusa gli alleati Nato di addossare in modo sproporzionato agli Usa i costi della difesa comune, utilizzando per il welfare dei loro Paesi il risparmio di spesa sui loro bilanci. E’ pure comprensibile che, come riporta un recente articolo del New York Times, Trump sia ben accetto tra i veterani di questi quindici anni di guerra, un grave problema sociale per il Paese, mentre alte sfere e apparati militari, e ovviamente l’industria degli armamenti, propendono per la Clinton.
Più difficile stabilire l’atteggiamento dei giovani, ma non sarebbe sorprendente se riemergessero le posizioni di un tempo sul Vietnam. A Trump viene rimproverato di aver evitato in vario modo di essere richiamato in quella guerra, ma la stessa accusa è stata rivolta a Bill Clinton. Anche sotto questo aspetto, una parte dei giovani, soprattutto democratici, potrebbero essere attratti da Gary Johnson, che alla guerra si oppose con i movimenti pacifisti dell’epoca.
In questo quadro è credibile che entrambi i candidati, una volta eletti, debbano modificare la loro strategia di azione in confronto a quanto sostenuto in campagna. Hillary Clinton dovrà fare i conti con i risultati fallimentari della politica di Obama, non solo per il caos provocato in Medio Oriente e nel Nord Africa. In Europa l’intervento a gamba tesa di Obama non ha evitato il Brexit, il suo Ttip è stato rigettato e sempre più netta appare la contrapposizione con la Germania. Nell’Europa orientale la situazione interna dell’Ucraina continua a essere disastrosa e le minacce della Nato si dimostrano tanto inutili quanto pericolose. Inoltre, la Nato deve affrontare l’involuzione in corso in Turchia, suo importante membro, involuzione che pone seri problemi all’afflato “morale” della Clinton. Nel Pacifico la Cina sta consolidando le sue posizioni, approfittando del peso con cui la sua economia condiziona le reazioni degli altri Stati, a partire dagli stessi Usa. Alcuni dei tradizionali alleati americani stanno cambiando atteggiamento, come nel caso delle Filippine, assumendo posizioni più concilianti nei confronti di Pechino. Hillary Clinton dovrà quindi rivedere il suo aggressivo interventismo che rende più nette le divisioni interne al Paese e rischia di provocare impreviste reazioni tra i supposti alleati.
Dal canto suo, Trump dovrà rendersi conto che non è così semplice tirarsi fuori dai grovigli in cui gli Usa si sono cacciati — in parte provocandoli — negli ultimi vent’anni e anche nei confronti di Putin dovrà aver presenti gli interessi del Paese più che le sue simpatie personali. Trump è molto attento ai problemi della sicurezza nazionale e, se non altro per questo, non può ritirarsi precipitosamente dal caos mediorientale.
Detto tutto questo, si può supporre che l’elezione di Trump darebbe maggior adito a soluzioni concordate rispetto a una presidenza Clinton. Tuttavia, entrambe le presidenze non avrebbero vita facile, perché Trump rimarrebbe ostacolato da buona parte dell’establishment, anche repubblicano, e le sue capacità istrioniche potrebbero non essere sufficienti a gestire adeguatamente la situazione. Hillary Clinton, che ha senza dubbio queste capacità gestionali, rimarrebbe costantemente sotto schiaffo delle rivelazioni di Wikileaks e delle indagini dell’Fbi. Sarà bene che gli altri Paesi comincino a prepararsi a gestire autonomamente i propri problemi senza aspettare l’aiuto dello zio Sam o, secondo un’altra versione, le istruzioni del Grande Fratello americano.