Chi si ricorda di un racconto inglese poi diventato film (siamo negli anni Sessanta), che si potrebbe tradurre “La solitudine del corridore sulle lunghe distanze” (The Loneliness of the Long-Distance Runner), dove il correre a lungo era sostanzialmente una metafora per “chiarirsi le idee muovendosi da solo e in silenzio”? Vorrei, con permesso, applicare questa immagine a chi occasionalmente scrive di politica senza essere un “professionista”, e spesso finisce col sentirsi un po’ solo.
Non è impossibile, anche se non probabilissimo, che The Donald vinca le elezioni presidenziali americane di quest’anno — ma, ecco, pregherei di rileggere la frase appena scritta, che credo sarebbe facilmente accettata oggi da quasi tutti i commentatori: “Non è impossibile eccetera”. Il fatto che si possa dire ciò senza essere derisi significa una cosa sola: a quasi tutti gli effetti, Trump ha già vinto.
E’ un bene o un male? E’ una questione che lascio ai commentatori politici. Mi limito a spiegare in che senso io intendo quest’asserzione sulla “vittoria” di Trump: non è una previsione su chi sarà il prossimo presidente degli Usa; è semplicemente una descrizione obiettiva di qualcosa che è già successo. Un imprenditore edile non ricchissimo e i cui affari non sono in perfetto ordine ha, in rapida successione: messo in ginocchio il gruppo dirigente del suo stesso partito, e spinto contro il muro il gruppo dirigente del partito avversario, compreso il presidente in carica.
“Chi l’avrebbe mai detto?” sembra essere il ritornello della maggior parte dei giornalisti e commentatori italiani (e non solo). Al che io mi permetto timidamente di osservare che si poteva già dirlo (e che infatti era stato già detto, o almeno suggerito) vari mesi or sono, senza bisogno di guardare in una sfera di cristallo. Quando Trump era ancora una macchietta politica, e poco più che un puntolino nero all’orizzonte, un osservatore dilettante aveva scritto, a proposito di costui, che “Nella politica americana contemporanea è emerso uno spartiacque: prima di Trump, e dopo Trump”. Perché (quasi) nessuno ha discusso di ciò seriamente, a suo tempo? Perché non si è nemmeno tentato di fingere un minimo di equidistanza fra i due candidati?
Ecco alcune delle domande che si dovrebbero porre in queste ultime ore, prima che si conoscano i risultati — quando le bocce non sono ancora ferme, quando non si è ancora scatenato il cinguettio (o il gracchiare) dei commenti post factum. Forse la pericolosa combinazione della banalizzazione hollywoodiana proveniente dalla Costa Ovest (Los Angeles) con l’arroganza neocolonialistica che arriva dalla Costa Est (New York) ha convinto ogni televedente che ormai tutto il mondo capisca gli Stati Uniti, e questo è abbastanza comico; ma non solo: la combinazione di cui sopra ha finito col persuadere anche gli americani che essi comprendano il loro stesso paese, e ciò rischia di diventare piuttosto tragico. Ma la lezione di fondo è quella dell’umiltà: nessuno può conoscere completamente quel mistero che è il proprio paese.