Sono tornato giusto in tempo per votare. Si vota di martedì, il primo martedì di novembre ogni quattro anni. Un giorno feriale, un giorno qualsiasi in cui i cittadini devono cavar fuori tra i pochi o tanti impegni il tempo necessario per recarsi ai seggi. Dovreste venire a vedere per capire come funziona. Tutto sembra alquanto approssimativo, da come trovare il luogo fisico dove votare all’identificazione dell’elettore, alla riservatezza del seggio. Con un piccolo fuoco d’artificio tecnologico alla fine perché la scheda non finisce in un’urna, ma in uno scanner che la inghiotte. 



Ho votato verso l’ora di pranzo, a due passi da casa, nella palestra di una scuola dove ho trovato una fila lunghetta fatta di pensionati e casalinghe, cosa comprensibile vista l’ora. Quello che non finisce mai di stupirmi è vedere “l’assortimento umano” di Brooklyn, bianchi, neri, gialli, mediorientali con e senza velo, ispanici… tanti incapaci di dire una sola parola in inglese. Chissà cosa sapranno, cosa avranno capito di questa campagna. Eppure votano come me, e come me se ne tornano a casa con un bello sticker sulla giacchetta: “I Voted”, io ho votato. 



Giornata storica, comunque vadano le cose: lei sarebbe la prima donna, lui il primo non politico a diventare Presidente. È stata una campagna lunga, ricca di colpi bassi, gossip e povera di contenuti. Per questo siamo allo stesso tempo col fiato sospeso e annoiati. Nel retropensiero di tutti e nelle parole di tanti non si vede l’ora che sia già domattina e in qualche modo sia tutto finito. Si elegge il Presidente, ma non solo. Occorre un totale di 51 eletti per controllare il Senato, e oggi ci sono 34 seggi in ballo e nel sistema di checks and balances americano il Senato costituisce la chiave di volta per le politiche del Presidente.



Sono le 8 di sera, l’ora in cui i cosiddetti swing states annunciano i loro verdetti. Florida, North Carolina, Ohio, Virginia, Pennsylvania, Michigan storicamente rappresentano l’ago della bilancia: chi li vince si porta a casa la White House. Ma occorrerà attendere lo spoglio totale per poter dire la parola fine. Guardando le contee che ancora mancano all’appello nei singoli Stati l’andamento sembra essere più favorevole alla Clinton, ma si capisce che ancora potrebbe succedere di tutto. Una cosa sono le opinioni e le proiezioni degli esperti, altro quel che la gente ha segretamente scelto. Sono convinto che tanti abbiano votato Trump, ma non lo dicano; se ne vergognano, ma l’hanno fatto.  

Passo ogni cinque minuti da Cnn a Fox, dalla casa dei sapienti democratici sull’orlo di una crisi di nervi a quella dei divisi repubblicani improvvisamente ringalluzziti da questi inattesi risultati. Ma bisogna aspettare, e mentre aspetto ripenso a questi dieci giorni che ho passato in Italia parlando del mio libro (God Bless America, Ed. Sef) rispondendo (anche) a domande sulla politica americana e su queste elezioni. 

Se c’è una cosa che nessuno capisce è perché Trump sia arrivato dov’è arrivato. Neanche i suoi competitors repubblicani hanno capito come abbia fatto a vincere la nomination a suon di “I will make America great again”, farò di nuovo grande l’America, senza proposte concrete su nulla (a parte la follia del muro), e un messaggio apparentemente privo di qualsiasi contenuto. 

Ma un sotterraneo contenuto c’è quello di Trump è il colpo di coda di un sogno americano che sembra appassito tra crisi economica, impoverimento della classe media, rigurgiti razziali, infezione ideologica. Chi ha votato Trump ha confusamente espresso ribellione a un sistema che a questo sogno – di fatto – non crede più. Aveva ragione Sanders a volerlo rimpiazzare con la sua immagine di socialdemocrazia? Forse alla fin fine il Paese chiederà a Hillary di essere traghettato verso una diversa normalità pur con un parlamento riconsegnato ai repubblicani (questo risultato è ormai certo), e con un numero impressionante di inattese defezioni tra le sue deboli schiere? 

Procediamo a caffè e quant’altro aiuta a combattere il sonno. Comunque vada a finire quel che sta emergendo è decisamente diverso da quanto pools, pundits e politologi avevano predetto e predicato fino a poche ore fa. A modo suo l’America ha stupito il mondo e se stessa. Nel mondo e in America certi ridono, altri piangono e gli analisti di professione sono già all’opera cercando di spiegare quello che non sanno e non riescono a capire. Trump è a un passo dai 270 voti elettorali e il flusso dei dati sembra fermarsi quasi a voler negare quella che ormai è un’evidenza. L’idea di un Trump Presidente spaventa anche tanti dei suoi elettori, perché Donald è la risposta sbagliata a questioni vere.  

Sono le 2 e dagli headquarters della Clinton scappa fuori il responsabile della campagna, ringrazia tutti, dice che non si saprà nulla fino al mattino e invita i presenti ad andare a dormire… Vuol dire che è fatta. A meno di improbabili terremoti, Donald Trump è il 45mo Presidente degli Stati Uniti d’America. Pare proprio che Hillary stanotte non parlerà. Un altro segno di quanto profonde siano le divisioni che spaccano questo Paese.

Si scatenino pure le letture e le interpretazioni. Lascio il microfono a chi si dedica a queste cose. Un fatto però è certo: Trump vince. Adesso dovrà vivere con le conseguenze di questa vittoria. Lui, tutti noi e il mondo intero. Oggi più che mai, God Bless America!